Lutto nel mondo del calcio. E' morto a 82 anni Edson Arantes do Nascimiento, notissimo come Pelé, considerato il più grande calciatore della storia, detto eloquentemente O Rey. Era da tempo malato. Nella sua lunghissima carriera, Pelé ha vinto 3 Mondiali (1958, 1962 e 1970), unico calciatore della storia a riuscirci. Ha vestito due sole maglie in carriera: il Santos, dal 1957 al 1974 (568 gol in 580 partite), e dal 1975 al 1977 il Cosmos New York.
Negli anni in cui il calcio era un racconto e la televisione un elettrodomestico nascente, Pelé era l'eco lontana di una meraviglia sudamericana, qualcosa che veniva raccontato e non visto. Era O Rey, gli bastava la sua terra. Per il resto del mondo fu soprattutto un favoleggiare, anche per il dato dei mille gol, uno meno delle mille e una notte, sciarada per differire la fine della corsa che arriva adesso, tra Natale e Capodanno, pochi giorni dopo un Mondiale perso che i suoi eredi gli avrebbero dedicato. La sua infanzia pure è leggenda, come la povertà e l'arrangiarsi, come tutto il Brasile che è la terra che meglio traveste la tristezza. Divampò minorenne nel 1958 in un Mondiale giocato in Svezia, poco seguito da noi italiani perché per la prima volta non ci eravamo qualificati alla fase finale. Diede un contributo decisivo alla prima vittoria auriverde e lasciò intendere che per molto tempo si sarebbe parlato di lui, e come. Avrebbe dato il bis quattro anni dopo, in Cile, in un torneo da noi ricordato per l'eliminazione burrascosa per opera dei padroni di casa, vinto in finale contro un Paese che non esiste più, la Cecoslovacchia. Poi, nel 1970, l'atto definitivo. Brasile e Italia si trovavano in finale all'Azteca di Città del Messico, due vittorie a testa e l'aggiudicazione definitiva della Coppa Rimet, antesignana dell'attuale trofeo e destinata a chi la vincesse tre volte. L'Italia di Valcareggi arrivava fiaccata dalla semifinale con la Germania, il celeberrimo 4-3, resse un tempo per cedere alla distanza. Era stato proprio di Pelé il primo gol, un incredibile stacco in elevazione a restare sospeso in aria, che sarebbe stato il cruccio per tutti i giorni che gli sarebbero rimasti del povero Tarcisio Burgnich, il suo marcatore. Poi, a fine carriera, andò a New York a cercare invano di far attecchire il calcio negli States.
Intanto la Coppa Rimet venne rubata dalla sede della federcalcio brasiliana, fusa e rivenduta a pezzi d'oro. La modella che posò per impersonare la Vittoria alata è divenuta la protagonista del romanzo di un italiano, "E' finito il nostro carnevale" di Fabio Stassi. Vincere tutto per vincere niente, questa la contraddizione di ogni uomo. Soltanto Ayrton Senna, ventott'anni fa, ha avuto un applauso come quello che adesso il Brasile e il mondo intero tributano al tenore che zittiva tutti con le sue giocate.
Per i critici, Pelé fu penalizzato mediaticamente dal non aver mai giocato in Europa, come se avesse sempre voluto evitare di misurarsi con le asprezze del calcio occidentale. Eppure l'Inter di Moratti senior lo aveva quasi acquistato ma il timore di sommosse popolari in patria aveva mandato all'aria l'affare, poi nel 1961 Pelé venne blindato per decreto governativo, con l'etichetta di "patrimonio nazionale" che ne impediva la cessione all'estero, una cosa mai più fatta per nessuno. Ha così fatto scintillare il suo genio vincendo campionati in patria, ma è stato egualmente un colosso nell'immaginazione popolare mondiale. O forse lo è stato proprio per quello, perché da noi lo si vide poco o niente, giustappunto ai Mondiali in bianco e nero, come la maglia della sua squadra paulista. Era una nostalgia, una lontananza, noi italiani ed europei lo intravedevamo soltanto ai Mondiali ma bastavano. Parlavano i numeri, la leggenda, la mitologia, le statue, perfino le reliquie che di rado si raccolgono di un vivente. E la triste allegria che è la cifra del suo Brasile, una terra calcisticamente fertilizzata dallo schiavismo portoghese e dai mozambicani e angolani ivi deportati. Pelé, come il lusitano Eusebio, veniva da quell'Africa per fare grande il Sudamerica, il paese del carnevale e della magia nera.
Da quasi mezzo secolo Pelé era un ex calciatore, portava così in giro il suo personaggio con sublime leggerezza. Non fece mai l'allenatore o il dirigente in senso stretto, "era" Pelé e questo bastava. Recitò se stesso in "Fuga per la vittoria" tra Sylvester Stallone e Michael Caine, fu ambasciatore dell'ONU e ministro nel suo Brasile. Non parve soffrire di quella mancanza di respiro che spesso coglie i calciatori a fine carriera, viveva il suo tempo vuoto con naturalezza e con la levità ostentata sui prati. Nemmeno si era spenta la sua stella in campo che si accese quella di un altro sudamericano, però argentino, insolente e guaglione e altrettanto mirifico; e da allora anche quelli che non lo hanno mai visto giocare davvero, cioè quasi tutti, si divertono a chiedersi se sia stato più grande Pelé o Maradona. Manuel Serrat li ha messi insieme in una canzone, "Pelé era Pelé, Maradona uno solo", insieme a Di Stefano ("Un pozzo di picardia") e al suo preferito, Ladislao Kubala. Ora se la vedranno tra di loro, là dove le partite non finiscono mai.
Pelè ha incantato Genova per ben due volte. La prima occasione fu il 30 giugno 1959, un anno dopo il suo primo Mondiale. Il Santos era in tournèe estiva in Europa e quella sera al Ferraris, davanti a più di 50mila tifosi accorsi a vederlo, giocò contro il Genoa. Finì 4-2 per la squadra del campione del mondo. Ma qualcosa rimase, tanto che molti anni dopo Roberto Pruzzo si vide affidare il soprannome di "O Rey di Crocefieschi".
GENOA-SANTOS 2-4
GENOA: Piccoli, Bruno, Caffaratti, De Angelis, Carlini, Leopardi, Dalmonte, Abbadie, Maccacaro, Pantaleoni, Barison
SANTOS: Lala, Pavao (Fioti), Getullio, Morgao, Formiga, Zito, Alfredinho, Alvaro (Alfonsinho), Coutinho, Pelè (Dorval), Pepe
ARBITRO: Rebuffo
RETI: 5′ Dalmonte, 16′ Pavao, 53′ Pepe, 55′ Pepe (rigore), 59′ Barison, 82′ Coutinho.
La seconda volta fu nell'imminenza del Mondiale messicano. Era Il 24 settembre 1969 e il Santos affrontò una mista Genoa-Sampdoria, con una maglia rossa bordata di bianco. Finì 7-1 per il Santos e in quell'occasione Pelé realizzò una doppietta. Prima della gara, il Santos aveva pranzato alla storica Trattoria Mentana di corso Marconi alla Foce, che era il quartier generale dei giocatori rossoblucerchiati. Nella foto, gentilmente concessa da Massimo Viviani figlio di Franco, allenatore rossoblu e autore dello scatto, i due figli del presidente Renzo Fossati, Pelè, il ristoratore Nando e Massimo Viviani.
GENOA-SAMPDORIA-SANTOS 1-7
GENOA-SAMPDORIA. I tempo: Lonardi (G), Rossetti (G), Falcomer (G), Corni (S), Spanio (S), Negrisolo (S), Perotti (G), Benetti (S), Morelli (G), Salvi (S), Rigotto (G). All. Bernardini.
GENOA-SAMPDORIA II tempo: Lonardi (G), Falcomer (G), Delfino (S), Rivara (G), Colausig (G), Bittolo (G), Cristin (S), Quintavalle (S), Fotia (S). All. Bernardini.
SANTOS: Gilmar, Lima, Turcao, Ramos, Delgado, Joel, Djalma Diaz (Negreiros, 55’), Manuel Maria, Nené (Leo, 67’), Edu (Douglas, 67’), Pelé, Abel. Allenatore: Antoninho.
ARBITRO: Alberto Picasso di Chiavari.
RETI: Pelé (2), Djalma Dias (2), Negreiros, Nenê e Léo Oliveira; Turcão (aut).
IL COMMENTO
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