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A fine settembre non voteremo solo per le elezioni regionali, ma anche per il referendum costituzionale sulla riduzione dei parlamentari. In pratica, si tratta di votare “sì” o “no” alla riduzione di un terzo dei deputati (da 630 attuali a 400) e dei senatori (da 315 attuali a 200).


Sono anni che si dibatte dei costi eccessivi della politica italiana e dell’inefficienza del nostro Parlamento. Forse, dunque, è arrivata l’occasione buona per dare un colpo alla “casta”? A mio parere no. La riforma, infatti, rischia di creare più problemi di quanti ne potrà risolvere. Si dice che il taglio dei parlamentari porterà ad un risparmio di spesa. Vero, ma si tratta di un risparmio minimo, perché riguarderà solo le indennità (gli “stipendi”) dei 330 parlamentari tagliati. Al contrario, le spese di funzionamento del Parlamento (Camera, Senato, palazzi parlamentari, funzionari, commessi, etc.) rimarranno esattamente le stesse.


Il risparmio di spesa, dunque, sarà uno zero virgola zero zero sette per cento sul totale della spesa pubblica italiana. Senz’altro troppo poco per giustificare una riforma costituzionale. Soprattutto perché, sull’altro piatto della bilancia, la riforma produrrà una serie di disequilibri che, molto probabilmente, non sono stati presi in seria considerazione dagli autori del testo. Anzitutto – ed è forse la questione più grave – verrà distorto il rapporto tra rappresentanti e rappresentati. Non si può ancora dire quanto, perché dipenderà dalla legge elettorale con la quale andremo a votare. Ma si può ben comprendere il punto di fondo: si pensi al Senato, che in base alla Costituzione deve essere eletto su base regionale. È evidente che le Regioni più piccole – come la Liguria – avranno una grande difficoltà ad essere compiutamente rappresentate in Senato, sia con esponenti della maggioranza, sia con esponenti delle minoranze. La riforma avrà un effetto iper-selettivo, limitando sensibilmente la voce in Parlamento delle forze minori e distorcendo la rappresentanza a vantaggio dei territori più popolosi.

Com’è stato notato (ad esempio dai prof. Clementi e Curreri) la presenza di collegi enormi potrà addirittura produrre l’effetto di aumentare i costi delle campagne elettorali e, comunque, avrà l’effetto certo di legare ancora di più i candidati ai partiti, non essendo immaginabile che si possa essere eletti senza il forte appoggio di una struttura di partito. E, poi, si deve mettere in chiaro che tagliare il numero dei parlamentari ha ben poco senso se non si riforma il funzionamento del Parlamento. Se le regole sono le stesse, i prodotti continueranno a essere gli stessi (se non peggiori, perché si chiederà a meno persone di fare più cose, con un prevedibile scadimento ulteriore della qualità e dell’efficienza).

Sarebbe stato molto meglio, allora, tagliare il numero dei parlamentari insieme ad una profonda revisione dei meccanismi di funzionamento del Parlamento, a cominciare dal bicameralismo perfetto, che prevede la totale duplicazione delle attività di Camera e Senato. L’unica nota potenzialmente positiva della riforma è che, con la riduzione dei parlamentari, aumenterà il peso dei rappresentanti regionali in sede di elezione del Presidente della Repubblica. I primi, infatti, diminuiscono (da circa 950 a 600). I secondi, invece, restano quelli di prima (cioè 58). È – probabilmente – un effetto non voluto dagli autori della riforma, ma potrebbe dare più peso alle Regioni. Anche in questo caso, tuttavia, è troppo poco per poter dare un giudizio positivo ad una riforma che sembra strizzare l’occhio agli istinti più superficiali e populisti. Istinti dai quali dovremmo stare alla larga.

Lorenzo Cuocolo - Professore di Diritto costituzionale comparato ed europeo, Università di Genova