Cronaca

La bozza del supplemento di perizia conferma che se fossero stati effettuate verifiche sulla pila 9 si sarebbe scoperto anche il difetto di costruzione
2 minuti e 39 secondi di lettura
di Michele Varì

La bozza della perizia supplementare chiesta dai giudici del processo sulla tragedia del ponte Morandi conferma la tesi dell'accusa: se fossero stati più controlli con scassi sulla pila 9 come erano stati effettuati a cavallo degli anni '90 sulla 10 e sulla 11 si sarebbe potuto scoprire anche il difetto di costruzione che avrebbe originato il collasso del 14 agosto 2018 costato la vita a 43 persone.

La prima sintesi della bozza dei tre periti Losa, Valentini e Rosati (nella foto) esposta oggi in aula sembra inchiodare i principali indagati dei 58 oggi sotto accusa.

Consulenti possono replicare entro il 12 gennaio

 

Adesso i consulenti delle difese e delle parti civili ha tempo sino al 12 gennaio 2025 per presentare delle osservazioni, quindi entro il 31 dello stesso mese i periti dovranno consegnare la perizia bis definitiva che sarà discussa in aula dal 3 febbraio, giorno della prima udienza del processo del prossimo anno.


I periti insomma ribadiscono che le "ispezioni visive con scassi locali" avrebbero potuto rilevare "le difformità dal progetto originario". Nello specifico i tecnici incaricati dai giudici Lepri, Polidori e Baldini hanno sottolineato che la necessità di effettuare un monitoraggio più approfondito era suggerita anche dalle prime ispezioni che avevano rilevato difetti alla sommità delle pile 10 e 11 e che "hanno determinato la necessità di eseguire un intervento di sostituzione degli stralli per la pila 11 e di rinforzo per la pila 10".



Inutili le prove riflettometriche di Aspi

 

I periti hanno poi distrutto il valore delle prove riflettometriche utilizzate da Autostrade per l'Italia e Spea basate su impulsi elettrici che molti imputati hanno utilizzato per confermare che i controlli sul ponte venivano fatti: "Verifiche poco attendibili - hanno rimarcato gli ingegneri - quelle di tipo non distruttivo eseguite nel tempo sugli stralli dei 3 sistemi bilanciati del viadotto Polcevera, ai fini della individuazione dello stato di ammaloramento dei cavi degli stralli, l'unica modalità di verifica era costituita dalle ispezioni visive con scassi locali/carotaggi". Con questo tipo di ispezioni sarebbe stato possibile individuare le "modifiche al sistema di tiranti rispetto al progetto". Si sarebbe così proceduto ad altri approfondimenti. Il pool di esperti ha poi spiegato che l'entità della corrosione "è assolutamente imputabile a fattori esogeni" e cioè all'acqua e all'ossigeno che sono entrate dentro il calcestruzzo dalle fessure esterne.

 

Difetto  noto dal 2010, ma non si intervenne


La tesi principale della difesa degli imputati per cui sino all'incidente probatorio effettuato dai periti dopo il crollo del 2018 nessuno sapeva del difetto di costruzione invece non sembra reggere dopo le dichiarazioni clamorose del più importante testimone ascoltato in aula, quel Gianni Mion, amministratore delegato della holding dei Benetton, che prima agli investigatori della guardia di finanza e poi ai giudici ha confermato che "già in un riunione di informazione della Holding Atlantia del 2010 era stato detto che il ponte era a rischio crollo per un difetto di costruzione", incontro in cui ad una sua domanda su chi certificava la sicurezza della struttura, il direttore generale Mollo aveva risposto, lasciando di stucco Mion, "ce la certifichiamo noi". Mion, che non è stato indagato, ha detto di essere pentito di non avere detto nulla per impedire che questa consuetudine andasse avanti, "quando seppi del crollo mi sarei sparato un colpo alla testa" aggiunse a Primocanale dopo essere uscito dall'aula del processo.