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di Luigi Leone

 

Dice Matteo Renzi: “Insieme si vince”. Rincara Raffaella Paita, sua seguace fin dai tempi del Pd: “Il modello Salis è un modello nazionale”. Alla seconda do’ pienamente ragione. Sull’affermazione del primo, invece, mi permetto di obiettare, sebbene sia certamente vero che il centrosinistra unito, il cosiddetto campo largo o come diavolo si voglia definirlo, abbia i numeri per conquistare il successo.

Chiamo a testimoni gli amici del caffè “Piccardo” di Imperia, imprenditori, liberi professionisti e qualche collega: ho sempre sostenuto che Silvia Salis avrebbe vinto. Al primo turno se l’alleanza avesse tenuto, al secondo turno se qualcuno fosse scappato, come l’esperienza di quella parte politica ci insegna. Nessun dubbio, però, sul risultato finale, anche se nei miei pezzi non l’ho detto perché sarebbe stato un endorsement improprio.

Ma Silvia Salis era una candidata indovinata, indovinatissima: donna, capace, coinvolgente. Ed esperta: non diventi vicepresidente vicario del Coni, mi ripeto e insisto, se non sai fare politica e se non sai pure stare attenta ai conti. Che sia una bella donna, si rassegni Maurizio Gasparri del centrodestra, è solo un di più: non guasta, per carità, ma è oggettivamente un di più.

Ecco, è in questo senso che ha ragione Paita: il modello Salis è esportabile a livello nazionale se il primo presupposto è quello di indovinare il candidato/a. Altrimenti, puoi fare tutti i campi larghi che vuoi o qualsiasi professione di unita’, ma è più facile una sconfitta. Del resto non è che bisogni andare tanto lontani: ricordate la Sardegna? Giorgia Meloni, la premier, era nel momento di massimo fulgore, volle che il candidato governatore fosse il sindaco di Cagliari, però sbagliò clamorosamente cavallo. Così arrivò Alessandra Todde e il centrosinistra poté festeggiare.

Ecco, rispetto a Genova non riesco a trovare differenze: allora fu Todde, stavolta è toccato a Silvia Salis. Se imbrocchi il nome giusto, la coalizione ha i numeri per spuntarla, perché il valore aggiunto portato dalla candidata, in tal caso, ha una rilevanza decisiva. E attenzione che a Genova, da quelle parti lì lo sanno benissimo, anche se non lo ammetteranno mai: cito solo Ariel Dello Strologo, alle penultime comunali, e Andrea Orlando alle ultime regionali. Candidati che non hanno portato il “di più” necessario.

Poi, certo, il programma, la squadra e tutto il resto sono utili affinché “nel durante” un’amministrazione riesca a governare bene una città. Ma in partenza ciò che serve, anzi è indispensabile, è il candidato giusto. Nel caso di Salis c’erano anche i sondaggi di Tecnè  per Primocanale a dire con chiarezza che avrebbe vinto lei e con ottime possibilità di spuntarla al primo turno. Di là, nel centrodestra, le previsioni non piacevano, però quelli di Tecnè li conosco: sono bravi e indipendenti, quindi fotografano la situazione per com’è.

E la situazione ti diceva che il candidato Pietro Piciocchi era sbagliato: faceva il vicesindaco di Marco Bucci, nel frattempo migrato in Regione Liguria, dunque c’era un segno di continuità massima che dispiaceva profondamente ai genovesi. Bastava girare per bar, mercati e sui bus per rendersene conto.

Nessuno venga a raccontarmi, però, neppure Matteo Renzi, che se al posto di Silvia Salis ci fosse stato qualcun’altra/o avrebbe vinto lo stesso. Il campo largo, checché se ne dica, non basta. Difatti non è un caso se qualcuno pensa proprio alla sindaca di Genova come antagonista di Meloni. Per logica dovrebbe essere la segretaria del Pd, Elly Schlein, invece…

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