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Cerchiamo talvolta risposte nel posto sbagliato, oppure dove non ce ne sono proprio. Forse perché le domande più profonde rinviano ad altre domande: se l’Universo ha un limite, cosa c’è dopo? E prima del big bang, cosa c’era? E se invece ci ha creato un Dio, chi ha creato Lui? Insomma, la Canzone dell’infanzia di Peter Handke.

Questo per dire che perdiamo tempo a chiederci perché i vincitori di Wembley siano gli stessi che, nove mesi dopo, hanno perso dalla nazionale di uno Stato che non tutti saprebbero trovare sulla mappa, per non parlare dei vecchi quiz sulle capitali. Perché cose così succedono e basta. E non c’è una ragione oppure ce ne sono troppe.

Perché capita perfino che Bartali e Anquetil non abbiano mai vinto quello che ottennero Ottembros o Dhaenens, cioè un Mondiale; e che dei Villeneuve il figlio Jacques sia arrivato dove non era riuscito il padre Gilles. Siamo in tempi di Oscar; e quindi né De Sica né Sordi né Gassman né Mastroianni né Volonté e nemmeno Tognazzi o - perché no? - Villaggio arrivarono al premio conquistato da Benigni.

Se a luglio avessimo non detto, ma solo sussurrato che insomma ci era andata proprio bene, ed era stato un filotto di combinazioni propizie, dal Var che aveva cancellato il gol di Arnautovic a De Bruyne e Hazard sì in campo ma acciaccati e quindi come due spaventapasseri, fino alla doppia serie di rigori in semifinale e finale, un ingranaggio che difficilmente ti riesce due volte di fila, avremmo fatto la fine di passare per i soliti snob antipatizzanti capalbiesi, oppure per chi sotto sotto - a volte nemmeno sotto sotto - aveva tifato contro.

I rigori, appunto. Un ottimo tecnico come Roberto Donadoni viene percepito come il personaggio de L’uomo in più: “Il calcio è un gioco, Antonio, ma tu sei un uomo fondamentalmente triste”. Tutto per colpa di un rigore sbagliato da giocatore e di quelli falliti dai suoi giocatori quando era lui l’allenatore, contro la Spagna che però di lì a poco avrebbe vinto tutto ma proprio tutto, e lui comunque ci aveva pareggiato. Pagliuca dice sempre che lui a Pasadena un rigore lo aveva pure parato, Buffon a Berlino nemmeno uno perché con Trézeguet ci aveva pensato la traversa, che colpa ne ha lui se i suoi compagni ne avevano sbagliati tre e quelli del successore nemmeno uno?

È andata come in quel film che si apre con la voce fuori campo del protagonista. “Chi disse: "Preferisco avere fortuna che talento", percepì l'essenza della vita. La gente ha paura di ammettere quanto conti la fortuna nella vita. Terrorizza pensare che sia così fuori controllo. A volte in una partita la palla colpisce il nastro e per un attimo può andare oltre o tornare indietro. Con un po’ di fortuna va oltre e allora si vince. Oppure no e allora si perde”. Ovvero Allen che incrocia Dostoevskij, due che non c’entrano né con gli azzurri né con il pallone in generale. Quindi ideali per aggirarci in una scienza fatta di sole eccezioni. 

Tutti i difetti atavici del nostro calcio e, forse, del nostro stesso Paese c’erano già, e al gran completo, anche la sera della vittoria sull’Inghilterra. Quindi serve a poco radiografare una crisi evidente già allora, oppure esercitarsi in quella retrotopia dove si rifugia chi sia a disagio nel presente e tema il futuro.

Restiamo al calcio. In ogni storia c’è uno snodo, minuscolo ma decisivo, che qualora ritoccato avrebbe permesso alla mia squadra del cuore di vincere una Coppa dei Campioni oppure nemmeno uno Scudetto. E allora diciamo che l’Italia del 1978 era molto più bella e forte di quella che quattro anni dopo si sarebbe imposta a Madrid, e pensare che in quel caso esultare in tribuna al Monumental di Buenos Aires sarebbe toccato a Giovanni Leone. A proposito di destino.

Così come per quattro edizioni consecutive, dal 1990 al 2002, le squadre di Vicini, Sacchi, Maldini e Trapattoni avrebbero ben potuto cogliere, con altrettanto se non maggiore merito, la Coppa poi sollevata da Lippi. Però appunto prima del 2006 c’era sempre stato un disguido del possibile nel verso sbagliato, come agli Europei 1996 (eliminati dai tedeschi futuri vincitori), 2000 (raggiunti dalla Francia come Bitossi da Basso a Gap, a proposito di sorte) e 2004 (il famigerato “biscotto” scandinavo), mentre nel 2012 la Spagna era molto più forte di quella di quattro anni prima.

Noi non sappiamo quale sortiremo domani, oscuro o lieto. Per questo ci illudiamo di trovare sempre un esatto cifrario per decodificare il reale, che spesso però accade senza che noi lo vogliamo e anche contro i nostri intendimenti. Si chiama vita; e la passiamo a cercare, senza riuscirci, di comprenderla.