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Ma catastrofi come le alluvioni dell’ottobre 1970 hanno lasciato un segno indelebile. Non solo Bisagno, ma anche Leiro e Polcevera uscirono dagli argini provocando enormi danni e molti lutti
4 minuti e 24 secondi di lettura
di Renzo Rosso*

Anche gli anziani frequentano i social. Non fanno eccezione i vecchi professori che s’iscrivono ai gruppi più disparati, dal meteo al tennis. Frequento perciò musicisti anni ‘60 e ’70, studiosi e storici delle catastrofi naturali, amanti della auto storiche, climatologi, ambientalisti accademici. E, in autunno, il mio social si riempie d’immagini e video sulle alluvioni, italiane e non; un tormentone pressoché giornaliero.

Ieri, per esempio, toccava a Norvegia, Cina, Bangladesh, Indonesia, Argentina e Uruguay. Secondo l’autore dal Grande Gatsby, F.S. Fitzgerald, la vita ricomincia con l’estate. Ma «ti aspetti di essere triste in autunno» scrisse Hemingway nelle proprie memorie (Festa mobile). Eppure l’autunno sarebbe il momento ideale per tenere conto di ciò che abbiamo fatto e di ciò che non abbiamo fatto; e di ciò che vorremmo fare il prossimo anno. E se non riusciamo a mettere in agenda il verbo prevenire—l’accorato appello del giornalista Rai Viazzi all’indomani delle alluvioni genovesi del 1970—proponiamoci almeno di aiutare la gente a convivere con il rischio. Tralasciando le idiozie—utili a ricordare come i social siano un surrogato del Bar Sport e dell’Accademia dei Lincei, assieme—commenti e discussioni sui social ondeggiano tra due poli. C’è il polo guelfo che invoca il cambiamento climatico. E c’è il polo ghibellino che reclama come questi episodi abbiano scandito la storia di questo paese; e che la consapevolezza del rischio e delle sue cause sia già chiara da lungo tempo. A Genova vale senz’altro la vulgata ghibellina, anche se il cambiamento climatico, come scrivo da 40 anni, non migliorerà le cose: oggi osserviamo solo i timidi esordi del clima che sarà! Ma catastrofi come le alluvioni dell’ottobre 1970 hanno lasciato un segno indelebile. Non solo Bisagno, ma anche Leiro e Polcevera uscirono dagli argini provocando enormi danni e molti lutti. “Le impressionanti precipitazioni e le conseguenti piene hanno interessato tutti i torrenti e i rii nei bacini che vanno dal Leiro al Bisagno” scrisse Lino Cati sull’Annale Idrologico del 1970 (Fig.1).

Allora gli Annali venivano stampati dal Poligrafico dello Stato nel semestre successivo. Catilino, come veniva chiamato quando dirigeva l’Ufficio del Po, era un idrologo esperto allora a capo della Sezione genovese del Servizio Idrografico. Non riassumo qui quanto scrissi in un saggio* sul Bisagno, pubblicato undici anni fa. Lo avete già ascoltato o letto su vari media genovesi. onestamente citato da alcuni, ignorato da altri. Ricordo qui solo alcune tappe del calvario, tuttora in salita, intrapreso dalla città per ricondurre il pericolo alluvionale del Bisagno a un livello accettabile di rischio residuale. Il 31 ottobre 1971, fu reso pubblico lo studio condotto dalla Commissione (ministeriale) presieduta da Giulio Supino (Fig.2).

Lo scolmatore in galleria era il rimedio più ragionevole per ridurre il rischio in città entro limiti accettabili. La copertura fascista del torrente aveva generato un assetto urbano non più cancellabile e del tutto pregevole. La galleria diventava la soluzione meno violenta. I benefici avrebbero ampiamente superato i costi. Alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, fu presentato il progetto esecutivo per raddoppiare le dimensioni della galleria, ancora nel limbo. In tal modo, si sarebbe potuto regimare il corso d’acqua cittadino, così come avvenuto a Valencia qualche anno prima. Il Rio Tùria, una volta deviato nel Plan Sur, aveva consentito di creare giardini meravigliosi. E, nella tragica alluvione valenciana dell’autunno scorso, il Plan Sur ha funzionato a dovere, mentre danni e lutti sono stati causati dai rivi minori, del tutto trascurati. Il progetto del parziale deviatore, su mia insistenza, comprendeva anche dieci piccoli invasi regolati da briglie di trattenuta (Fig.3). Servivano a trattenere la vegetazione flottante e a ritardare la formazione della piena. Il cantiere si avviò con uno scavo di assaggio che partiva giustamente dal mare.

La tempesta di tangentopoli, cui non seguirono conferme giudiziarie, affossò l’opera nella culla. Alla fine degli anni ’90, il Piano di Bacino del Bisagno ripropose lo scolmatore. Era un piano pilota, basato su studi approfonditi, frutto di un progetto scientifico europeo assai innovativo. Non se ne fece nulla: il Comune preferì ricostruire la copertura del torrente con larghezza tal quale. Pare che, per via della obsolescenza strutturale, la sua solidità non consentisse il transito dei carri armati: Genova, accusata a torto di miopia conservatrice, da sempre precorre i tempi. Grazie a #italiasicura, unità di missione diretta da Mauro Grassi ed Erasmo D’Angelis, dieci anni fa lo scolmatore fu f inanziato dal Governo. Ciò che seguì è un archetipo del declino amministrativo, costruttivo e culturale di questo paese. Con un tocco di genovesità in più, come la processione in stile Boccadirosa al seguito della salvifica talpa cinese, tuttora a denti asciutti. “Accadde un pomeriggio, buio come la notte…” inizia così una canzone** che scrissi molti anni fa. Non è certo all’altezza di Dolcenera, frutto della vena poetica di Fabrizio De Andrè e della magia musicale di Ivano Fossati. Ma i suoi versi descrivono con una certa precisione e molta partecipazione umana la catastrofe di quella alluvione. Compresa la fine di un sogno infantile, infranto dalla devastazione del laboratorio di un leggendario liutaio genovese, Lorenzo Bellafontana. Ascolatela.

*Vedi anche: Rosso, R. (2014) Bisagno; il fiume nascosto, Venezia: Marsilio, ** Vedi anche: https://youtu.be/tmhaunRG9x4?si=LL-d1BezphS-izTi 

*Renzo Rosso, professore ordinario di Idrologia e Costruzioni Idrauliche al Politecnico di Milano