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Ero in aula da cronista giudiziario il giorno che Guido Rossa venne a testimoniare contro il postino delle Brigate Rosse Francesco Berardi. Quarantatrè anni dopo ricordo come ieri quel sindacalista, operaio dell’Officina Italsider, alpinista, ex paracadutista che da solo aveva avuto il coraggio per primo di infrangere il muro che difendeva in fabbrica i terroristi, i loro fiancheggiatori. Il suo eskimò verde, le poche parole di conferma al verbale che prima la Vigilanza Italsider e poi i Carabinieri avevano raccolto.

E ricordo bene il gesto che Berardi, chiuso nel recinto degli imputati, tra due carabinieri, fece in modo ampio verso il pubblico di quel processo storico. Con le due mani disegnò nell’aria un cerchio ampio, indicò Rossa come se lo mettesse in mezzo a quel cerchio e poi con la mano destra mimò una pistola che sparava in direzione del suo compagno di fabbrica. Era un’indicazione inequivocabile, un messaggio diretto a qualcuno di preciso che stava in piedi tra la folla a seguire l’udienza, sicuramente qualcuno della colonna brigatista genovese.

Rimasi impietrito davanti a tanta spudoratezza in quella richiesta di vendetta. Mi aspettavo che  il pubblico, che era stato identificato per nome all’ingresso in aula, sarebbe stato interrogato, setacciato dopo quella provocazione. Invece nulla. Non fecero nulla. Io descrissi quel gesto minaccioso nel mio articolo uscito il giorno dopo su “Il Giornale”, augurandomi che sarebbero stati presi provvedimenti.

Rossa se ne andò solo da quell’aula, come solo vi era entrato. Nel suo bellissimo libro, appena uscito, “Giù in mezzo agli uomini”, Sergio Luzzatto racconta bene anche il dopo processo in quel palazzo di Giustizia che per la prima volta aveva visto tra gli imputati un personaggio delle fantomatiche Br, fino ad allora figure indistinte, misteriose, che avevano lasciato proprio in quelle aule la scia di sangue dell’omicidio del procuratore generale Francesco Coco e lo choc del sequestro del Pm, Mario Sossi e poi già tante azioni di guerra, tanti morti, tanti gambizzati, tanti sequestrati.

Quel Berardi, figura fragile , assoldato nel partito armato da una delle “anime nere” del terrorismo a Genova, il professor Enrico Fenzi, era la prima faccia viva di una storia tragica. Berardi si sarebbe suicidato in carcere, dopo la terribile  fine di Rossa, che pure lui aveva sollecitato con quel gesto.

Riccardo Dura, il killer di Rossa, con i suoi due colpi di pistola al cuore, in disobbedienza agli ordini dei “capi”, finì crivellato dai fucili a pompa dei carabinieri, nell’assalto al covo di via Fracchia, a cento metri dal punto in cui era caduto Rossa.

Una catena di sangue, di vendette , una sequenza tragica con la quale “passa” il terrorismo rosso a Genova. Oggi la riviviamo nell’ennesimo anniversario della morte di quell’eroe dei nostri tempi moderni, il quarantatreesimo. E non riusciamo a rassegnarci al fatto che quell’uomo tutto d’un pezzo, così perfettamente descritto nel libro di Luzzatto, sia stato lasciato così solo. Nell’andare a denunciare, ma anche dopo, quando la minaccia contro di lui aveva preso una forma così palese.