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La telefonata arrivò in redazione al Secolo XIX senza alcun preavviso.

«Sono Mantovani».

«Buongiorno, presidente».

«Volevo avvisarvi che siete squalificati».

«…».

«Nel senso che, per trenta giorni da oggi non potete entrare a Bogliasco, al campo di allenamento».

«?».

«E il perché ve lo spiego subito. Quell’articolo non mi è piaciuto, non accetto che si dicano certe cose».

L’articolo era un normale commento a una normale – anzi, non troppo normale di quei tempi in cui stava crescendo la Sampdoria che sarebbe arrivata sul tetto d’Italia e, quasi, su quello d’Europa – partita non troppo brillante di campionato. Ma quello che Paolo Mantovani non aveva gradito non era una critica al gioco, a un errore individuale. Ma all’atteggiamento. In quell’articolo si diceva che qualcuno, in campo, non c’era andato con l’atteggiamento giusto, la disposizione mentale e agonistica adeguata. Era, dal suo punto di vista, mettere in discussione l’attaccamento dei suoi giocatori, o di alcuni di essi, alla causa.

Per la cronaca, la “squalifica” venne annullata dopo una ventina di giorni e fu lo stesso “giudice sportivo”, ovvero il presidente Mantovani, ad avvisare con un’altra telefonata. Paolo Mantovani era questo. O anche questo. Del suo paternalismo nei confronti dei giocatori si compiaceva. Aveva costruito qualcosa di unico e irripetibile, che la “Bella stagione”, libro e film, hanno raccontato perfettamente: un gruppo, una famiglia, da cui nessuno voleva uscire, nessuno voleva andarsene.

Quando nel 1986 Berlusconi e Galliani lo lavorarono ai fianchi lui, infine, disse che sì, Vialli poteva passare al Milan, «se lui avesse accettato». E Vialli, quella volta, si presentò nella mitica sede di via XX Settembre 33, si fece annunciare dalla fida segretaria del presidente Pinuccia Sardella, una sorta di angelo custode del capo, poi si mise in ginocchio davanti alla porta, bussò ed entro così. Una genuflessione scherzosa che tolse ogni dubbio a Mantovani e tolse Vialli dal mercato.

Lo stesso spirito con cui, tre anni dopo, nel ritiro di Salsomaggiore pre-finale di Coppa Italia contro il Napoli di Maradona, tutti i compagni andavano a turno a bussare alla stanza di Vierchowod cui ancora il Milan aveva fatto una di quelle offerte a cui non si può dire di no, urlandogli “Traditore”. La sfida finì 4-0 per la Samp e Vierchowod non si mosse da Genova per ancora molti anni.

Mantovani era stato lungimirante: aveva scelto, in tempi di squadre italiane con due stranieri, di puntare sui migliori giovani. Si muoveva in anticipo. Andava dritto all’obiettivo. Partì da Pellegrini, poi Mancini, Mannini, Pari, Vierchowod dato in prestito e poi tornato alla base, via via tutti gli altri. E qualche straniero di classe sopraffina, Trevor Francis, Brady, poi giocatori maturi e di grande intelligenza calcistica.

Era un romano anomalo, Paolo Mantovani, schivo, di poche parole. Carismatico e lungimirante, elegante e con l’idea di una calcio che fosse lontano dagli eccessi. «Le capre brucano l’erba», sgridò i suoi amati tifosi per un’invasione pacifica. Se qualcuno eccedeva, lui minacciava di andarsene. Se qualcuno aveva la testa un po’ troppo calda come il capo tifoso Claudio Bosotin, lui lo “normalizzava” offrendogli il posto di magazziniere, in modo da vivere tutto il giorno, sereno, accanto ai suoi idoli. Vedeva le partite accanto alla figlio Francesca. Si divertiva a firmare il rinnovo del contratto a Cerezo sulla tovaglia di “Carmine”, il ristorante dei giocatori a Quinto; si divertiva anche di più a giocare sulla gelosia per i suoi affetti: «Se non gioca Mancini non mi diverto», diceva e Vialli e faceva finta (ma non troppo) di offendersi un po’. 

Quando arrivò alla Sampdoria disse che voleva lo stadio pieno e non sentire più scandire “Serie A, serie A”. Doppia missione compiuta: e dopo il ritorno in serie A, la Samp si assestò subito alle spalle delle grandi del calcio italiano. Dopo l’infarto sul prato del Sant’Elia, al termine di una partita col Cagliari, gli diedero tre settimane di vita. Lui andò a farsi operare a Phoenix, in Arizona, poi si mise nelle mani del dottor Segre, il suo medico personale. Gli chiese tre cose: vedere la fine dei suoi guai giudiziari, arrivare a 60 anni e vivere abbastanza da vincere lo scudetto. Dallo scandalo petroli uscì prosciolto, morì troppo presto, a 63 anni, due anni prima la sua Samp visse lo scudetto e l’anno dopo perse la finale di Coppa dei Campioni per una punizione che non c’era. Poi, in quel calcio che cambiava iniziò a vendere un “quadro" all’anno della sua “pinacoteca”.

Vedeva le cose prima degli altri, sapeva comandare, mano ferma in guanto di velluto (mai presentarsi con un procuratore), ma non era un uomo solo al comando: sapeva farsi consigliare scegliendo i consiglieri migliori, Claudio Nassi l’ermetico, prima; Paolo Borea, il saggio, poi. Inventò il Trofeo Ravanò, alla cui finale, arbitrata dai migliori fischietti, partecipavano i presidenti della Lega. grandissimo, unico, di personalità eccezionale ma capace di ascoltare. Inimitabile. Ma per chi ha preso in mano la Sampdoria da pochi mesi con la volontà di ispirarsi all’esempio della Bella Stagione, una guida da studiare.