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Oggi è la Festa del lavoro. Difatti, tanti, ma proprio tanti supermercati, ad esempio, sono regolarmente aperti. Al massimo concedono ai loro dipendenti mezz'ora in più: anziché aprire alle 8,30 lo fanno alle 9. Qualcuno obietterà: anche moltissimi bar, moltissimi ristoranti, moltissimi altri negozi sono aperti. Vero, ma in tal caso si tratta di servizi che vengono garantiti alle migliaia di turisti che affollano la Liguria. Non è la stessa cosa. E neppure lo è, cara premier Giorgia Meloni, quello che lei chiama "il concertone della Triplice".

Nel giorno in cui il governo vara un nuovo decreto legge sul lavoro, non voglio entrare nel merito del provvedimento: spero di essere smentito, però ho la netta sensazione che tutto resterà come hanno fatto gli esecutivi e i relativi provvedimenti che sono venuti prima. Invece è tempo che sull'argomento alcune cosette ce le diciamo, senza infingimenti.

Punto primo: da ogni parte sento il grido di dolore delle imprese che non riescono più a trovare lavapiatti, camerieri, pizzaioli, pulitrici di camere da letto, bagnini e via elencando. Verissimo. Ma qualcuno si è chiesto se il problema siano i potenziali lavoratori o gli imprenditori? A quanto ammonta la busta paga (quella vera, non quella presunta che serve solo al politically correct delle dichiarazioni ufficiali)? E per quanto tempo una persona potrebbe lavorare? Uno, due, tre, quattro mesi? Ma se anche fossero dieci, undici o dodici: e poi che cosa dovrebbe fare un potenziale lavoratore?

Ha ragione il governatore ligure Giovanni Toti: "Tu intanto lavori, poi quando arriva il periodo di difficoltà lo Stato ti sostiene, fai un corso di formazione e ti ricollochi". Niente da dire se le cose funzionassero. Invece sappiamo benissimo che non è così. In molti casi nel mirino ci finiscono i giovani: non si vogliono sacrificare, mettono mille condizioni, avanzano pretese. Sempre Toti: "Ormai si lavora sette giorni su sette, per ventiquattro ore spalmate su turni. Ogni altra ipotesi è pura velleità". Non sono così convinto che i turni siano sempre costruiti avendo tutto il personale che occorrerebbe. E ancor meno sono certo che i giovani abbiano torto se, quando si potrebbe come nel caso dei supermercati, vorrebbero almeno santificare la domenica: siamo certi di non essere noi adulti, o presunti tali, ad aver smarrito la via maestra?

E poi: l'Italia fra tanti problemi ha pure quello della fuga dei cervelli, cioè ragazzi che finiscono l'Università e quindi se ne vanno all'estero, per lavorare meglio e soprattutto guadagnare di più. Anche Genova e la Liguria pagano questo dazio. Però mica tutti i giovani che fuggono vanno a fare gli scienziati! Tantissimi, ohibò, finiscono per fare i lavapiatti, i camerieri, i pizzaioli, cioè quei mestieri che nel nostro Paese rifiutano: forse per la semplice ragione che oltre le Alpi li pagano decisamente meglio!

Anche questo, ma non solo, porta molte forze politiche a ritenere che si debba varare il prima possibile un reddito minimo. Io di questa cosa non sono mai stato convinto, perché fatalmente tutti i datori di lavoro saranno portati a plafonarsi su quel minimo: se una persona posso legalmente pagarla dieci-dodici euro all'ora, perché dovrei dargli di più?

Anche i sindacati hanno spesso storto il naso. Adesso, il più grande di tutti, la Cgil, forse per la sua rinnovata collateralità con le opposizioni contro l'attuale governo, sembra averci ripensato. Io tengo il punto. C'è chi mi dice: in realtà i sindacati sono recalcitranti perché con il reddito minimo perderebbero potere, si ridurrebbe il loro margine di mediazione. Possibile, persino probabile. Eppure io non vorrei vivere in un Paese nel quale chi deve rappresentare i lavoratori, anche se a volte non lo fa proprio al meglio, perde potere. Perché questo significa indebolire anche i lavoratori.

Non sono in grado, onestamente, di dire come si potrebbe e dovrebbe fare per rimettere l'Italia in linea di galleggiamento sul tema del lavoro. Però so che cosa non si dovrebbe fare: basta raccontarci delle favole, basta con tagli del cuneo fiscale che fanno ridere, basta con buste paga da fame. E basta con la precarietà elevata a sistema: il posto fisso non esiste più da anni, ma altro sarebbe la stabilità di una corretta flessibilità che consente di fare dei progetti di vita e di sostenere le stesse aziende con il radicamento dei suoi dipendenti. Ma tutto ciò (ancora?) non esiste. E allora: che Festa del lavoro è?