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GENOVA - Quante volte lo abbiamo scritto, auspicato, denunciato negli ultimi decenni? Mentre la città cambiava radicalmente, attraversava le sue crisi di trasformazione epocale, mentre oggi grandi progetti la attraversano dai suoi contrafforti sulle alture, alle dighe marine, ai suoi collegamenti infrastrutturali, tra supertreni trasformati in linee di Valico, funivie, seggiovie, tunnel subportuali, skymetro e che diavolo altro, tutto “renderizzato” in immagini che un po' ci fanno girare la testa, il centro storico, i carruggi, la città vecchia, come la chiamava l'indimenticabile don Baget Bozzo, è sempre lì.

Inghiotte propositi di rilancio, altalenanti destini di riscossa, invasioni immigratorie, svuotamenti residenziali dopo grandi speranze, calar di saracinesche, ritorno e fuga di artigiani, de profundis di storiche ditte e negozi, scommesse ardite.

E tutto sembra uguale, comprese le polemiche cicliche sulla movida, che si muove come un serpente nella sua giungla.

E' sempre lì con quella parte riscattata, come abbiamo scritto e mostrato io e Mario Paternostro decine, se non centinaia di volte, di Sarzano, dei Giardini Luzzati spinti da energie nuove e creative, di via Ravecca e dintorni, che il tocco geniale di Edoardo Benvenuto estrasse dal resto.

E allora questo tempo trascorso, le promesse, i piani arenati qua e là, i buchi neri mai riempiti, la stessa scena vista da secoli al bordo regale di corso Garibaldi, dello spaccio e della prostituzione, tramandati in secula seculorum, dimostrano che c'è solo una strada.

Diradare, aprire, demolire: verbi proibiti per decenni da un pudore genovese che mescolava pigrizie amministrative, conservatorismi ambientali, regole auree di Sovraintendenze e beni culturali, equilibri politici.

Ma oramai non si può pensare che la città muti, spinta da grandi progetti, da grandi idee, molte ancora da vedere realizzate, ma continuamente promessi, è che lì, dove splende il cuore artistico culturale, storico, non si riesca a dare quello scossone che solo la coniugazione di quei tre verbi potrebbe portare.

Il centro storico alias caruggi, alias città vecchia, ha bisogno di “aprirsi” fisicamente, di spazi di ingresso, che storicamente non esistono, di “porte” che non siano solo Porta di Vacca, Porta Soprana e niente di più.

Si sfonda il muro storico per arrivare da Levante al Porto Antico in una domenica “garibaldina” e non si progetta come aprire quel forziere dei caruggi. Si va bene, ma come e dove?

Hanno demolito e risolto il problema abitativo della Diga di Begato. Cercansi soluzioni per compiere un'operazione ancora più strategica per l'intera città al suo cuore.

Qua ci sono fior di architetti per studiarlo e per farlo e non è necessario incidere con un bisturi il corpo antico delle mura, dei palazzi, dei vicoli.

Bastano poche operazioni, “mirate” e eseguite in un intervento strutturale, architettonico, sociale, culturale per impedire che il centro storico muoia per asfissia. Aprirlo significherebbe far respirare le sue attività, migliorare la sua sicurezza, introdurre soluzioni più moderne ai suoi bisogni.

Si può partire con un gran concorso di idee, magari affidate a grandi architetti, come quei sei che negli anni Ottanta-Novanta furono invitati a proporre soluzioni per salvarlo. Restarono solo i disegni di quella grande idea. Oggi  con i disegni siamo avanti, proprio grazie a quella pioggia di rendering che ci alluviona da tempo.

Ce ne propongono allora qualcuno in più per entrare finalmente nella parte più preziosa della nostra città.