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Giovedì prossimo alle 13, a quarantasette anni dall'assegnazione al nostro concittadino Eugenio Montale, verrà annunciato il vincitore del Premio Nobel 2022 per la Letteratura. Ancora una volta, salvo sorprese che peraltro l'Accademia di Svezia non manca periodicamente di ordire, tira per l'Italia la stessa aria che caratterizza un altro appuntamento annuale che ci vede ai margini da tempo: il mondiale di ciclismo. Sui pedali uno di noi non vince dal 2008, Alessandro Ballan sul traguardo posticcio realizzato asfaltando la pista del galoppatoio di Varese; a proposito della città lacustre, tra stucchi e statue dell'istituzione di Stoccolma l'ultimo premiato è il figlio del capostazione di Sangiano Dario Fo, che sulla lapide al Famedio - dove dorme il grande sonno, per una tenerezza della storia, accanto al suo amico e sodale Enzo Jannacci - ha voluto scritto "giullare e pittore". Un po' genovese se vogliamo anche lui, vista la grande amicizia che lo legava a don Gallo, e la circostanza della prima mondiale di "Mistero Buffo" il 1 ottobre 1969 al cinema Ariston di Sestri Levante, unica sala italiana disposta a ospitare l'autore scomunicato dalla chiesa ortodossa rossa per le sue posizioni ambigue nei confronti dell'extraparlamentarismo.

Non che la giuria scandinava sia incontrovertibile nei verdetti. Come appunto nel ciclismo, dove la maglia iridata sfuggita per esempio a Bartali, Anquetil, De Vlaeminck, Indurain e Nibali ha adornato invece le spalle di comprimari come Ottembros, Dhaenens, Vainsteins, Brochard e Astarloa; così autori come Lev Tolstoij, Franz Kafka, Philip Roth, Jorge Luis Borges e Antonio Tabucchi non hanno mai avuto diploma e medaglia dal re di Svezia, al contrario di quanto accaduto - non ce ne vogliano - a Jean Marie Le Clezio, Gao Xinjiang, Derek Walcott, Wole Soyinka e altri letterati non imprescindibili.

Per carità, accanto alle scelte provocatorie o - peggio - politicamente corrette per motivi geografici o di tutela delle minoranze - nell'ultimo mezzo secolo abbiamo visto laureare scrittori, poeti e drammaturghi immensi: Samuel Beckett, Heinrich Boll, Saul Bellow, Isaac Bashevis Singer, Elias Canetti, Iosif Brodskij, José Saramago, Harold Pinter, Mario Vargas Llosa (nato come giornalista sportivo e infatti inviato a Spagna 1982), Patrick Modiano, Svetlana Aleksijevic, Peter Handke e mettiamoci pure Bob Dylan, ottusamente disdegnato da molti che ignorano il peso che nel secondo Novecento le canzoni abbiano avuto non tanto nella storia della cultura ma nella storia di ognuno di noi, e questa cosa infatti la diceva un altro Nobel mancato come Marcel Proust.

Torniamo però a noi. Magari stavolta tocca davvero a Claudio Magris, che se fosse un ciclista sarebbe don Alejandro Valverde, una bacheca piena di argenti e bronzi fino a Innsbruck 2018, dove finalmente agguantava la maglia a lungo vagheggiata. E' il solo nome italiano a comparire ogni anno nelle previsioni, accanto a figure scaturite da iniziative autopromozionali spesso sgangherate.

In attesa di conoscere il nome, e magari di sanare l'astinenza che per la nostra cultura nazionale dura appunto da venticinque anni, tocca evidenziare una curiosità. L'Italia è forse tra i Paesi più intraprendenti nell'industria editoriale, gli scrittori sono considerati oracoli multifunzionali e come tali interpellati, vanta inoltre una falange di romanzieri molto considerata dalla critica universitaria: Tommaso Landolfi, Dino Buzzati, Carlo Emilio Gadda, Roberto Calasso, Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, Enzo Bettiza, il già citato Tabucchi, senza citare irregolari come Aldo Busi e Alberto Arbasino fino al multiforme Umberto Eco. Dagli archivi declassificati svedesi pare ci fosse andato molto vicino Alberto Moravia, peraltro oggi completamente dimenticato. Amici non troppo tali gli avevano pure fatto uno scherzo telefonico, senza bisogno di fare l'accento svedese, comunicandogli una vittoria mai realizzata.

A fronte però di una pletora di narratori, nel Paese che pure è quello di Manzoni ovvero del fondatore del romanzo moderno, nella lista del Nobel non si sono narratori italiani, eccezion fatta per Grazia Deledda, anno 1926. Gli altri nostri letterati insigniti del premio sono poeti come Giosue Carducci, Salvatore Quasimodo ed Eugenio Montale, oppure autori teatrali come Luigi Pirandello (che pure scrisse anche romanzi e racconti, ma che venne scelto per i "Sei personaggi" e dintorni) e Dario Fo, quest'ultimo peraltro anche autore di testi geniali appunto per Jannacci, come "Aveva un taxi nero" e "Per la moto non si dà": ascoltare per credere, siamo appunto tra Vladimiro ed Estragone. "Scrittori" in senso proprio, però, non pervenuti.

Perché dal 1926 nessun narratore italiano convince gli accademici svedesi? Forse perché l'industria editoriale italiana da decenni ha privilegiato il fattore commerciale o quello di scuderia, nel senso di appartenenza e/o militanza in quella prospettiva di "letteratura impegnata" avviata con la glaciazione neorealista, rispetto al talento puro, criteri che avevano rischiato di avviare sul binario dell'impubblicato "Il Gattopardo" del principe Tomasi emarginando inoltre autori come Guido Piovene e Giuseppe Berto? Forse perché, come appunto nel ciclismo, a un periodo aureo segue la decadenza? Oppure non sarà che in Italia quasi tutti scrivono, ma pochi leggono, e non è dato un vero scrittore che non sia preliminarmente un grande lettore?

Mi rendo conto che questo commento, come è inevitabile, soggiace alle preferenze personali dell'autore. Che premierebbe, fosse chiamato a decidere, Jonathan Littell oppure Daniel Mendelsohn, autori rispettivamente di due monumenti di respiro ottocentesco ispirati alla Shoah come "Les Bienveillantes", tradotto rovinosamente non "Le Eumenidi" ma "Le Benevole", e "Gli scomparsi". Oppure, per patriottismo, quel gran genio del mio non amico Michele Mari, chi lo ha letto sa, basterebbero i racconti di "Euridice aveva un cane" e di "Tu, sanguinosa infanzia" oppure "Tutto il ferro della Torre Eiffel". Un autore da poche migliaia di copie, certo, nel mare cartaceo delle grandi tirature dei libroidi. Ma, come diceva Juan Rodolfo Wilcock, un altro che il premio l'avrebbe meritato, anche solo per aver scritto un raccontino titolato "La somministrazione del premio letterario", il nostro tempo è quello della "morte dell'arte per affollamento".