La crisi di governo innescata dalle dimissioni di Mario Draghi, finora respinte ma passibili di essere confermate dopo il dibattito parlamentare di mercoledì, ha aperto una ferita anche a livello genovese. Il sindaco, Marco Bucci, è infatti fra gli oltre mille sindaci italiani che hanno sottoscritto la lettera con cui invitano il premier a restare. Ma non tutti sono con il primo cittadino. Di sicuro non Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni e non Uniti per la Costituzione di Mattia Crucioli. Con la Meloni che parla di "uso spudorato delle istituzioni".
La questione riporta alla particolarità della crisi, che si svolge su due livelli: uno politico ed uno economico. Se parliamo del primo, riesce difficile dare torto a chi critica la posizione presa da Bucci: Fratelli d'Italia fa parte della sua maggioranza, ma sta all'opposizione per quanto riguarda il governo, mentre la formazione di Crucioli fa minoranza tout court, a Roma come a Genova. Sono presupposti che Bucci non può politicamente ignorare, quindi si sarebbe dovuto astenere da qualsiasi iniziativa.
Se, però, andiamo sul terreno delle ricadute economiche prodotte dalla crisi di governo, allora l'atteggiamento di Bucci si giustifica. Anzi, è doveroso. Difatti nella richiesta al premier si trova in nutrita compagnia di altri sindaci, di governatori regionali, di imprenditori, di sindacalisti, di presidenti di associazioni ed enti vari.
Ora, il sindaco di Genova - come il governatore ligure Giovanni Toti, fra i più attivi a sostegno di Draghi e per il quale il ragionamento vale pari pari - non ha bisogno di avvocati difensori. E notoriamente, come mi è già capitato di affermare, non sono fra i suoi cantori. Ma nella circostanza trovo che gli elementi economici della crisi - rallentamento, che vada bene, di opere essenziali per Genova e la Liguria - siano tali per cui un sindaco e/o un presidente di Regione debbano giustamente infischiarsene degli aspetti politici della vicenda e debbano andare al sodo di ciò che significherebbero, dal punto di vista pratico, elezioni anticipate di sei-otto mesi.
Politicamente, invece, non sono una dramma. Gli italiani hanno il diritto di votare e tanto più ce l'hanno se consideriamo che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ci disse chiaramente che il governo di emergenza nazionale con a capo l'ex numero uno della Bce sarebbe stato l'ultimo della legislatura. Dunque, non può e non deve essere il penultimo.
Draghi lo ricorda benissimo, difatti si è dimesso per coerenza. Ha i numeri, visto che la fiducia gli è stata votata ampiamente, però non c'è più il perimetro della maggioranza iniziale, una volta venuti meno i Cinque Stelle. In più, la Lega, Forza Italia e Italia Viva cominciano a dire che il governo deve rimanere, ma senza i grillini. Volete che Draghi accetti di infilarsi in un simile tritacarne?
Per questa ragione mercoledì prossimo ci vorrebbe un miracolo e cioè che Giuseppe Conte e il suo partito dicano di aver scherzato, facendo una clamorosa marcia indietro. Improbabile. E ancor più improbabile, nonostante il pressing dell'Ue, delle istituzioni economiche e finanziarie, della Casa Bianca, di una parte dell'opinione pubblica italiana, che sia Draghi a ritirare le dimissioni. Ma Bucci (e Toti), data la situazione, ha il diritto, quasi il dovere nel suo ruolo di amministratore pubblico, di dire al premier che deve restare. Perché certe cose, per Genova (e per la Liguria), le può fare solo il governo nella pienezza dei suoi poteri.
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