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Il film del giapponese Hamaguchi ha vinto a Cannes il premio per la migliore sceneggiatura
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Un film che indaga i tormenti della professione dell'artista, il mistero dei segreti degli altri e il legame tra creatività e sessualità. Tratto da un racconto di Haruki Murakami presente nella raccolta ‘Uomini senza donne’, ‘Drive my car’ è il quarto lungometraggio di Ryûsuke Hamaguchi, una delle maggiori rivelazioni del cinema giapponese degli ultimi anni, che invece di fare un semplice adattamento usa la storia - una trentina di pagine in tutto - come punto di partenza per un dramma di tre ore che diventa sempre più interessante man mano che si allontana dall’originale cambiando e aggiungendo luoghi, inventando alcuni personaggi e aumentando l'importanza di altri che nel racconto non ne avevano.

Yusuke e Oto sono una coppia sposata di grande successo che vive a Tokyo e ha alle spalle la perdita di un figlio. Lui è un acclamato attore e regista teatrale, lei un'abile drammaturga che trova ispirazione durante il sesso con il marito al quale però nasconde un amante che finirà per scoprirlo per caso senza farsene accorgere. Improvvisamente Oto muore lasciando a Yusuke solo domande senza risposta sull'amore della sua vita. Due anni dopo, ancora sconvolto per la scomparsa della moglie, viene chiamato a dirigere in un festival teatrale a Hiroshima ‘Zio Vanja’ di Cecov che decide di mettere in scena attraverso un adattamento multiculturale in cui ogni attore parla una lingua diversa (compresa quella dei segni) e proviene da un paese differente.

Soffrendo di glaucoma, gli organizzatori gli impediscono di guidare personalmente la sua Saab rossa imponendogli un’autista donna, Misaki, che nasconde i propri demoni sotto un aspetto reticente e professionale, con cui Yusuke stabilirà giorno dopo giorno un rapporto sempre più profondo dal momento che i due scopriranno di condividere ferite del passato difficili a rimarginarsi. Due anime congelate che si aiuteranno a vicenda perché dentro quell’auto che diventa una sorta di confessionale, un non-luogo che li aiuta a scoprire aspetti mai mostrati a nessuno o pensieri che prima non sapevano esprimere con le parole, la donna riuscirà a penetrare nella sua intimità e a turbare l'equilibrio tra lui e il ricordo della moglie, il che si rivelerà fondamentale per condurre finalmente il processo di elaborazione del lutto nella fase di accettazione consentendogli una nuova prospettiva di vita.

Va detto subito che ‘Drive my car’ non è un film per tutti e non lo consiglierei mai a chi va al cinema una volta l’anno o semplicemente per divertirsi. Però, e anche questo va detto, al di là di una lunghezza che normalmente non sopporto, lo trovo un film bellissimo, una conversazione fra tre artisti - Hamaguchi, Murakami e Cechov - in una storia sull'arte della collaborazione e su come le relazioni non riguardino tanto decifrare cosa c'è nel cuore di qualcun altro quanto capire il proprio, perché solo imparando a conoscerlo bene si potrà consentire agli altri di sviluppare un senso di comprensione reciproca.

Hamaguchi poi costruisce anche una riflessione sui labirinti dell’amore e sul potere del linguaggio: le parole che abbiamo detto, le parole che avremmo voluto dire, le parole che non abbiamo capito. ‘Drive My Car’ – misterioso, sensuale, avvincente - è un road movie dell’anima in equilibrio tra vita e teatro dove le solitudini dei personaggi si sfiorano, si guardano allo specchio, provano a decifrarsi, un viaggio dentro ogni presente doloroso che cerca un’ipotesi di futuro, un’interpretazione dei rimpianti e dei sensi di colpa irrisolti che rimangono nel profondo di ognuno di noi. E’ un film che ci mostra l'importanza dell'amore e della perdita, di come tristezza e dolore possano rappresentare un'opportunità di vita che senza sofferenza non sarebbe possibile raggiungere e che per vivere in armonia (anche con noi stessi) dobbiamo imparare a fidarci l'uno dell'altro, non reprimere le nostre emozioni e non aver paura di guardare in faccia la realtà. Perché, come dice un personaggio di Cecov proprio in ‘Zio Vanja’, “la verità, qualunque essa sia, non potrà mai essere spaventosa quanto l'incertezza".