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Dolore, redenzione e sensi di colpa dal regista di ‘American gigolò’
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Una storia di démoni segreti con cui dover fare i propri conti. Tra i film presentati alla Mostra di Venezia e già usciti in sala consiglio ‘Il collezionista di carte’ di Paul Schrader, sceneggiatore e regista (‘American gigolò’ il suo successo più grande) che negli anni Settanta cambiò per sempre il cinema di Martin Scorsese. Fu lui infatti a firmare gli script di capolavori come ‘Taxi driver’ e ‘Toro scatenato’ e oggi Scorsese gli rende il favore producendogli questo film.

Protagonista è William Tell (Oscar Isaac), un ex carceriere di Abu Ghraib dove era specializzato nelle più tremende tecniche di tortura. Dopo aver scontato una condanna a otto anni per le violazioni dei diritti umani di cui si è reso colpevole, sbarca il lunario come giocatore di poker professionista tenendo volutamente un profilo basso per non farsi notare troppo. In un convegno dove tra i relatori ritrova il vecchio istruttore, un Maggiore che non ha mai pagato per i crimini commessi e che conduce tranquillamente una nuova vita sotto falso nome, viene avvicinato da Tye Sheridan, giovane figlio di un suo commilitone che dopo essere tornato a casa si è suicidato perché schiacciato dai sensi di colpa. Vuole vendicarsi uccidendo il Maggiore e cerca di coinvolgerlo nei suoi piani ma William non accetta e prova a distoglierlo da questo proposito. Nella storia entra in gioco anche una donna intenzionata a procurargli uno sponsor, il che per lui che fino a quel momento aveva guadagnato solo cifre modeste potrebbe rivelarsi l’inizio di una nuova vita. Ma come si sa, soprattutto al cinema dai fantasmi del passato non ci si libera tanto facilmente.

‘Il collezionista di carte’ è un piccolo gioiello che Schrader, proveniente da una famiglia profondamente calvinista tanto che gli fu vietato di vedere film in tv fino ai diciotto anni, costruisce ancora una volta – come è capitato spesso – intorno a un antieroe in cerca di redenzione ed espiazione, tormentato dal dolore e dai sensi di colpa, sul punto di esplodere. Come Travis Bickle, il personaggio di De Niro in ‘Taxi driver’ o il Julian Kay di Richard Gere in ‘American gigolò’ di cui – autocitandosi – copia il finale, assolutamente identico. La cornice è rappresentata da una delle ferite ancora aperte dell’America contemporanea: le torture sadiche inflitte dai soldati (nella prigione di Guantanamo e altrove) a terroristi veri e presunti, seviziati e umiliati come fosse un gioco, qualcosa per cui alla fine hanno pagato solo i pesci piccoli.

E’ per questo motivo che ‘Il collezionista di carte’ nonostante i tavoli da gioco la facciano da padrone non è un film sul poker (così come la prostituzione maschile non era il tema di ‘American gigolò’) quanto piuttosto sull’ingiustizia e la disperazione che provano entrambi i protagonisti, sentimenti che diventano il volano che fa inevitabilmente legare William a Tye: due individui ugualmente condannati - indipendentemente dalla loro inclusione o esclusione sociale - in una contaminazione della disperazione più nichilista che cinica. Per Schrader è inevitabile che si attraggano l'un l'altro in un campo gravitazionale condiviso perché è gente che una volta accoppiata con un’anima simile è costretta ad affrontare se stessa completamente e senza scuse, ben sapendo che perdono e sacrificio non possono che andare di pari passo, prigionieri di una gabbia che cambia continuamente ma da cui è impossibile uscire.