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Mattarella vuole tagliare corto rispetto ai giochi di potere dei partiti e del primo ministro uscente
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 Da Conte al... conte. Risponde infatti al nome di Paolo Gentiloni Silverj - uso a presentarsi con uno solo dei due cognomi, di famiglia nobile titolare del contado di Filottrano, Cingoli, Macerata e Tolentino, ex ministro di Esteri, Poste e Agricoltura nonché ex presidente del Consiglio - la carta con cui Renzi intende scombussolare il PD, per poi riprenderselo e trasformarlo, suo vecchio sogno, nel partito della Nazione, previa Opa più o meno amichevole sul potenziale elettorale che fu della DC, da cui tutto sommato proviene.

A chi ironizza sul due per cento di cui viene accreditata Italia Viva, negli ambienti dell'ex primo ministro si fa notare che il PD, partito di cui il senatore di Rignano fu segretario, governa da quasi un decennio ininterrotto, malgrado l'assenza di vittorie elettorali e una quasi costante emorragia di voti; il tutto in uno scenario cinico in cui la volontà popolare ha funzione banalmente consultiva e i voti si pesano anziché contarsi. Non proprio un orizzonte compiutamente democratico.

La prima giornata di consultazioni, aperte dai colloqui tra il capo dello Stato e i presidenti dei due rami del Parlamento Elisabetta Alberti Casellati e Roberto Fico, si è svolta all'insegna della faida nel perimetro della fu maggioranza. Zingaretti e i grillini indicano compatti Conte per un reincarico, mentre al Senato si forma il gruppo degli “europeisti”. Di contro Italia Viva lancia due provocazioni con mani differenti: la Bellanova lascia intendere che Di Maio avrebbe i voti renziani, la Boschi cala il nome appunto di Gentiloni, già capo del governo e oggi euroministro dell'Economia, che potrebbe lasciare il posto a Bruxelles per incarnare un esplicito commissariamento dell'Italia da parte dell'Europa.

Conte è riuscito a irritare il Quirinale per alcune mosse estemporanee giudicate oltre la soglia dell'analfabetismo istituzionale, come l'annuncio irrituale di voler salire al Colle subito dopo la fiducia, oppure l'altrettanto dilettantistica idea di lanciare sui social un “appello al Paese” dopo la visita al capo dello Stato per le dimissioni. Perciò Mattarella e il segretario generale Zampetti hanno avocato la procedura nel segno del massimo formalismo: consultazioni snelle e chiarezza nei numeri, nessuno spazio a “pagherò” parlamentari.

Fiutato l'odore di polvere da sparo, il primo ministro uscente ha mandato segnali di pacificazione a Renzi, sperando in un rientro in maggioranza e al governo previa adeguata ricompensa. Il capo di Italia Viva non sarebbe nuovo ad arditi capovolgimenti di fronte, ma l'eventualità di un ritorno del dentifricio nel tubetto è stavolta assai remota.

A questo punto scatta l'ipotesi della cooptazione nella maggioranza delle forze moderate del centrodestra, previo s'intende il cambio del primo ministro, non potendosi dare tre governi Conte con tre maggioranze diverse, roba da fare invidia a Leopoldo Fregoli o Leonard Zelig. Perfino Salvini, fiutata l'aria, fa sapere: via Conte, poi si ragiona. Ma è difficile che il perimetro della maggioranza vada dalla Boldrini alla Meloni, tanto più che forzisti e totiani (i più indiziati di un ingresso a pieno titolo nel nuovo esecutivo) avrebbero buon gioco a rinfacciare al capo della Lega di essere stato il primo a rompere l'unità del centrodestra nell'estate di due anni fa, formando il gabinetto gialloverde.

Nel caso di un governo semiecumenico, che lasciasse Lega e Fratelli d'Italia fuori o comunque in una posizione subordinata, le soluzioni per la presidenza conducono appunto al conte Gentiloni o al presidente della Camera Fico, che lascerebbe così scranno e campanella a Dario Franceschini, ansioso di occupare un posto che spesso ha fatto da scorciatoia per l'agognato Quirinale.

Già, il Colle. La corsa al governo dissimula il vero grande gioco, quello per il dopo-Mattarella, partita assai complicata dove i favoriti più o meno in ombra sono Veltroni, Franceschini e il defilato ma attivissimo D'Alema, cui si aggiungerebbe Berlusconi in caso di rientro strutturale e determinante di Forza Italia al governo.
Restando al vuoto da riempire a Palazzo Chigi, quattro sono i tecnici tenuti presente dagli uffici della presidenza della Repubblica, qualora si dovesse riproporre lo schema ormai usuale di un capo del governo non politico, al vertice di un esecutivo di professionisti: unico schema in cui Mario Draghi accetterebbe, anch'egli in funzione Quirinale, l'incarico di ministro di Tesoro, Bilancio e Finanze.

Se l'economista Enrico Giovannini, il banchiere Carlo Cottarelli (già “incaricato” per tre giorni nel maggio 2018) e il professor Gian Mario Verona, rettore dell'università Bocconi molto caro a Mario Monti, non sembrano spendibili per un passaggio da Palazzo Chigi alla presidenza, il nome su cui converge un progetto non esauribile con un'esperienza di primo ministro tecnico è quello di Marta Cartabia. Milanese di Legnano, 58 anni, cattolica considerata vicina a Comunione e Liberazione, laureatasi alla Statale con Valerio Onida, professoressa di diritto costituzionale alla Bocconi, prima presidente donna della Corte Costituzionale, a detta di molti addetti ai lavori ha il profilo adatto per essere anche la prima donna capo dello Stato. Un'esperienza di governo sarebbe il viatico ideale, purché non al ribasso: unico rischio al quale Mattarella preferirebbe la soluzione estrema delle elezioni anticipate.