"Non dico che ce la dovevamo aspettare, questa roba orrenda, ma forse potevamo presentarci al virus un po' più preparati, come individui, come società. Adesso temo la bancarotta o l'oblio". Massimo Ferrero, presidente della Sampdoria da quasi sei anni, non manca come sempre di fare professione di fede calcistica ("Sono romanista da prima che nascessi") e in una intervista a Repubblica racconta se stesso e la sua giovinezza."Erano tempi liberi - racconta - e insieme complicati. Chi aveva problemi andava a rubare i portafogli sugli autobus, annavano a fa' er quajo, come si diceva. Eravamo poverissimi. Si faticava a finire la giornata. I maglioncini duravano per generazioni. Le toppe invecchiavano sui gomiti. I valori erano traguardi veri. Aridatece i valori! Levateje i telefonini! Mio padre diceva: discoremo. Parlatevi ragazzi! Noi mangiavamo la frutta che scartavano ai mercati generali di Via Ostiense, c' è una bella differenza".
Il rapporto con le donne? "Allora funzionava così: che non sapevi quando avresti dato o rimediato un bacetto. Non era come sarebbe stato poi, che la ragazze, scusate la franchezza, se la svitavano e te la tiravano addosso. Per incontrare le donne dovevi vivere in un' altra dimensione, borghesia, banche, avvocati, notai. O figli di papà. A noi povera gente non restava niente, per noi le ragazze erano tutte vestite, manco a Ostia se spojaveno".
Infine, il ricordo del carcere minorile: "Lo chiamavano riformatorio, ma in realtà era un carcere vero e proprio. E se non avessi già preso così tanti schiaffi da mio padre e da mia madre, sarei entrato tondo e uscito quadrato. Però lì dentro, a modo mio, mi sono fatto una cultura".
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