Leggendo gli articoli che i giornali dedicano in questi giorni alla strage di anziani per il Coronavirus mi è venuta in mente l’analisi puntuale che fece Adriano Sofri su “Repubblica” nell’agosto del 2003, quando un’ondata di caldo insopportabile si impadronì dell’Europa e in particolare della Francia.
Si calcolò che ci furono tredicimila morti di caldo e fu definita una catastrofe umanitaria. Il governo francese fu messo sotto accusa, imputato di avere agito in ritardo, anche se un governo difficilmente è responsabile del caldo o del freddo, così come non è responsabile del diffondersi di un virus totalmente inaspettato. Il governo e i governanti, in questo frangente, sono responsabili di quello che non hanno fatto (ho hanno fatto male, prima) e di come agiscono ora. Insomma in quell’agosto francese morì una parte pesante della generazione dei nonni. Quello che è accaduto e sta accadendo ora.
Il micidiale virus sta cancellando non una, ma due generazioni: quella dei nonni e quella dei bisnonni ultra ottantenni, temprati da due guerre mondiali e a alcune epidemie importanti come quella di febbre gialla del ’18. Scrisse Sofri in quel commento in prima pagina che i francesi parlarono di epidemia come motivo della morte per calura e Miriam Mafai sempre sullo stesso quotidiano rispolverò la storia della vecchiaia intesa come una malattia.
"D’un tratto – commentò Adriano Sofri – la longevità si mostra nella canicola col volto opposto: sembrava il cuore del progresso , era un’epidemia di vecchiaia". Mi è venuto in mente questo articolo che poi ho ritrovato tra i miei ritagli di vita, ascoltando i discorsi attuali sulla co-morbilità. Leggendo i bollettini strazianti del decessi. Morti di coronavirus, ma…. Il “ma” precede la frase giustificativa della scomparsa: ma c’erano altre patologie, almeno due, perché una non basta.
Anche fino a oggi consideravamo gli anziani (nonni, bisnonni, vecchi come si dice popolarmente, ma efficacemente) una prova di qualità dell’epoca in cui viviamo, dove si cura tutto o quasi. Nel 2020 si vive molto di più di prima, e aggiungevamo con soddisfazione: soprattutto nel nostro Paese, soprattutto in Liguria, soprattutto a Genova. Genova e la Liguria, le regioni più anziane d’Europa, quelle da prendere come esempio-modello per la progettazione del futuro, un futuro in cui ci saranno sempre più vecchi. Il record ambito dei tanti centenari. "Volete vedere come sarà il mondo fra vent’anni?", chiedeva una ricerca presentata alcuni anni fa a un congresso medico a Genova: "Venite a studiare l’Italia e in particolare la Liguria".
L’epidemia di Coronavirus, molto di più di quella del caldo torrido dell’agosto del 2003, ha minato queste nostre certezze, ricordandoci che la vecchiaia in certe situazioni può diventare anche una malattia. Allora, spiegavano le cronache, i vecchi certamente morivano per il caldo, inteso come concausa e Miriam Mafai aveva chiosato che i vecchi sempre muoiono di qualche concausa. Viviamo (vivevamo?) in una società gerontocratica (anche in politica fino a qualche anno fa) dove ci sono anziani attivi, magari anche anziani di grande potere e tantissimi anziani sommersi che riemergono tristemente dalle cronache sugli effetti del virus per esempio nelle case di riposo.
La riflessione dunque, quando il morbo si placherà, dovrà essere fatta non solo sulla trascorsa devastazione burocratica degli ospedali e su come fare i nuovi, ma anche sul modello da adottare nell’assistenza agli anziani, nei quartieri dove questi, i vecchi, vivono spesso soli, dentro una moltitudine anonima, affidati esclusivamente alla solidarietà del magnifico volontariato quello spontaneo e sottotraccia. I casi in cui la vecchiaia diventa davvero una malattia.
"I vecchi non parlano più / oppure solo a volte dal fondo degli occhi…", ricordava nel 2003 Sofri citando una canzone di Jacques Brel. Bisogna imparare a rileggere i loro sguardi.
salute e medicina
I dati del Coronavirus: la vecchiaia é ancora una malattia?
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