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Una certa enfasi mediatica, e non solo, sta accompagnando l’iniziativa con cui la Commissione di garanzia del Pd ha annunciato provvedimenti, fino all’espulsione, contro tutti coloro che “pubblicamente” si contrapporranno alla candidata governatore Raffaella Paita. A dirla tutta, mi sembra una non-notizia. Semmai, sarebbe stato stupefacente il contrario. Cioè che il Pd osservasse supinamente dei suoi iscritti, anche con incarichi interni e/o amministrativo-istituzionali, andare allegramente contro la “ditta”, come la chiama Pierluigi Bersani.

Ci saranno anime candide che, più o meno ad alta voce, prima o poi agiteranno lo spettro dell’autoritarismo, di un vulnus alla democrazia dentro il Partito democratico. Errore. Tutti coloro che nel Pd ritengono Paita non idonea al ruolo di candidata e, poi, eventualmente di presidente della Regione Liguria, hanno il torto di aver perso tempo in inutili tatticismi, anche di squisita matrice personale. Non possono ritenere che oggi, ormai avvenuta una piena identificazione elettorale fra Paita e Pd, il partito accetti un gioco al massacro che coinvolgerebbe non solo l’assessore a Infrastrutture e Protezione civile, ma appunto anche la “ditta”.

L’attimo fuggente è passato. E l’attimo fuggente era quello dell’immediato dopo-primarie, quando Sergio Cofferati se ne andò dal Pd sbattendo la porta, ponendo una questione morale legata alla consultazione, pesantemente inquinata da voti spuri, come quelli arrivati dal centrodestra o, peggio, da ambienti riconducibili persino alla malavita organizzata. I garanti sono arrivati a cancellare, malcontati, quattromila voti e dunque la vicenda non poteva e non doveva essere liquidata con un’alzata di spalle, o come l’intemerata di un big che male sopportava il peso della sconfitta. Per molto meno, a Napoli le primarie erano state annullate. In Liguria non è avvenuto. E a parte qualche sporadica raccolta di firme di qualche decina di iscritti, nulla è accaduto.

Soprattutto, nessuno dei vertici regionali ha posto l’argomento in termini perentori e pubblicamente dirompenti. Al più un paio di telefonate ai vicesegretari nazionali Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani, che però valgono  la classica foglia di fico. Una mossa all’insegna dell’atto dovuto, che si potrà anche rivendicare all’insegna del “ci ho provato”, ma in verità dimostra la disponibilità ad acconciarsi alla situazione. Del resto, il successivo caso di Vincenzo De Luca, che ha vinto la gara per la candidatura in Regione Campania, nonostante una condanna in primo grado e la mannaia incombente della Legge Severino (che lo renderebbe incandidabile) dimostra come il Pd, ai suoi diversi livelli, partendo da quello nazionale, abbia preferito fare lo struzzo.

L’esito non è stato neutro, in Liguria. Cofferati prima e Luca Pastorino giusto ieri, nel rendere esplicito il loro dissenso e la loro contrarietà a Raffella Paita se ne sono andati “motu proprio”, compiendo il gesto più ovvio. Quello che, adesso, la Commissione di garanzia minaccia come sanzione verso coloro che assumessero lo stesso atteggiamento senza trarne personalmente le conseguenze.

Questa non-notizia smaschera uno dei mali tipici della politica italiana: condurre delle battaglie senza pagarne il prezzo. Il prezzo, invece, c’è e l’uscita dal partito è uno di quelli possibili. Con l’effetto collaterale di perdere l’ombrello sotto il quale si può trovare la rendita di posizione fatta da incarichi che non arriveranno più. Siano essi elettivi o per nomina. E qui sta il nocciolo della questione. Fra gli anti-Paita, dentro il Pd ci sono personaggi che avrebbero voluto essere al suo posto, ma neppure si sono schierati alle primarie, e altri che la questione di principio la sollevano tenendo il piede in due scarpe. Cercando di “monetizzare” – leggasi poltrone – il dissenso. 

Con la loro iniziativa, i garanti rompono questo circolo vizioso. Ma è anche una scommessa al buio: una cosa sono i personaggi a caccia di posti - a volte relitti della vecchia nomenklatura che non si arrendono all'oblio, a volte neo appartenenti alla schiera dei rampanti, emuli dello yuppismo Anni Ottanta targato Psi – altro sono i semplici iscritti, quelli che “ancora ci credono”. Sono più di quanto si immagini. E per questa ragione il Pd deve mettere nel conto che potrebbe trovarsi con molte tessere stracciate prim’ancora di un intervento disciplinare. Perché quelle persone non hanno niente da chiedere. Se non un partito che sappia sentirsi, essere e apparire degno erede della sua stessa storia.