Cultura e spettacolo

La cerimonia di chiusura con tutti i premiati alle 18.45
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E in conclusione di ogni Festival alla fine arriva la domanda di rito: chi vincerà? A volte, se pure raramente, la risposta è semplice, vedi l’anno scorso a Venezia quando ‘Povere creature’ di Yorgos Lanthimos volava talmente al di sopra di tutti gli altri film che solo una giuria distratta o incompetente avrebbe potuto non premiarlo. Spesso però il compito di chi deve decidere è molto più complicato, come ad esempio in questa edizione di Cannes che ha messo in mostra un concorso discreto e niente più. Avranno parecchio da discutere la presidente Greta Gerwick e i suoi giurati (c’è anche il nostro Pierfrancesco Favino) perché in questi casi il Palmares diventa una questione di equilibri: a me piace questo film, a me piace quest’altro e per mettere tutti d’accordo si finisce per sceglierne un terzo inferiore agli altri due. Ricordiamoci poi che a decidere sono persone sì competenti ma di estrazione culturale differente, il che può complicare le cose.

E’ una maniera non so quanto elegante per manlevarmi da responsabilità, così più che fare previsioni preferisco ricordare i miei preferiti, che poi non è detto non possano vincere qualcosa. La personale Palma d’oro andrebbe a 'All we imagine as light' della regista indiana Payal Kapadia, la storia di tre infermiere nella moderna Mumbai con un'atmosfera di insicurezza romantica ed emotiva che incombe sulla vita di queste donne resa ancora più infelice per il fatto che si svolge in una grande città dove il fatto che ci vivano milioni persone ti fa sentire più solo di quanto tu non sia effettivamente. Non mi dispiacerebbe neppure vincesse ‘Emilia Perez’, queer-narco-musical del francese Jacques Audiard, la storia del crudele boss di un cartello messicano che decide di diventare donna: un dramma di criminalità e riscatto con una corrente di umorismo che riecheggia Almodovar insieme a momenti di noir, realismo sociale, accenni di telenovela e un'escalation culminante in una suspense che si conclude in tragedia. Magari qualcosa porta a casa, chissà. Terzo in ordine di (mie) preferenze ‘Caught by the tides’ del cinese Jia Zhangke che mette in parallelo una storia d'amore fallita durata 20 anni con il cambiamento che ha trasformato la Cina nello stesso periodo

Chi invece difficilmente sarà premiato è ‘The substance’, perché film di genere e come tale poco avvezzo a interessare le giurie. Eppure Coralie Fargeat (anch’essa francese) ha creato una favola horror che termina con una delirante sinfonia di sangue prendendo di mira l’età e il sessismo nell’industria hollywoodiana, una macabra parabola fantasy di misoginia e oggettivazione del corpo. Tra gli altri film di cui in un modo o nell'altro mi porto a casa qualcosa ‘The girl with the needle’ del danese Magnus von Horn, la tragica storia di una donna che cerca di sopravvivere alla crudeltà di una società che sta all’ombra della Prima Guerra Mondiale; ‘Bird’ della regista inglese Andrea Arnold, che attraverso le vicende di una ragazza medita sull'identità e l'appartenenza e sul passaggio dall'infanzia all'adolescenza tra sessismo e crudeltà; ‘Three kilometers to the end of the world’ del rumeno Emanuel Parvu che esamina le conseguenze di un'aggressione omofobica in una piccola comunità rurale del suo paese e 'The seed of the sacred fig' dell'iraniano Mohammad Rasoulof, un coinvolgente thriller domestico sulla violenza patriarcale nel suo paese. Infine ci sarebbe 'Megalopolis' di Coppola. Non è certo il suo film migliore ma con lui non riesco ad essere obiettivo e me lo sono fatto piacere lo stesso.