Cultura e spettacolo

Il regista scava nei propri ricordi e racconta un percorso di formazione che è stato il suo
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Anche chi come me non è un amante di Sorrentino deve ammettere che ‘E’ stata la mano di Dio’, che ha vinto meritatamente il Gran Premio della Giuria a Venezia, è un film diverso. Personalmente trovo il regista napoletano barocco, eccessivo, enfatico e ridondante. Anche molto felliniano, ma questo di per sé non sarebbe una colpa, solo che personalmente alle copie preferisco gli originali. E tuttavia qui spariglia le carte con cui è solito giocare.

Siamo negli anni '80 e a Napoli non si parla che di Maradona che potrebbe essere acquistato dal Barcellona. L'aria è densa di promesse e l'adolescente Fabietto la respira a pieni polmoni, terzogenito di una famiglia chiassosa e travagliata, anche bizzarra (la sorella non esce quasi mai dal bagno), piena di parenti con cui si condividono pranzi interminabili, grandi risate e piccoli drammi. Più in là c’è un futuro ancora da conquistare. Poi, un inspiegabile incidente cambia tutto: una tragedia – la morte dei genitori dovuta ad una calderina difettosa mentre erano nella loro casa di montagna - distrugge il passato e lo mette davanti a un percorso sconosciuto e tutto da scoprire.

Sorrentino scavando nei propri ricordi racconta insomma un percorso di formazione che è stato il suo, quell’insieme di devastazione e liberazione che accompagna spesso l’approssimarsi dell’età adulta e che qui viene sublimato nel percorso di Fabietto che vediamo accompagnato nella propria crescita da piccoli malavitosi, anziane baronesse che lo iniziano alla sessualità e registi tanto presuntuosi quanto cialtroni. Con encomiabile fiducia nella forzata soggettività dei ricordi, il regista torna senza nostalgia al passato per dipingersi come un ragazzo assetato di esperienze che guarda la zia Patrizia con ammirazione e desiderio, che gode dell'amore dei suoi genitori e che ride e piange alle riunioni estive di famiglia.

Dopo i rompicapi religiosi di 'The New Pope' racconta insomma una storia che scaturisce dalla propria maturità interiore ed è proprio la sincerità e il pudore con cui la affronta, quella franchezza senza difese e senza vincoli che caratterizza la sceneggiatura a dare a ‘E’ stata la mano di Dio’ un’anima vera che sinceramente rare volte (e comunque solo a tratti) ho trovato nei suoi film, così da aggiungere – mettendosi a nudo - un'altra dimensione: una comunione con chi in sala porta le proprie esperienze di perdita, il proprio vissuto di quei momenti nella vita in cui le cose meravigliose e le cose terribili entrano in collisione.

Così facendo finisce anche per smarcarsi anche dalla sua ispirazione quasi abituale: laddove la memoria di Fellini era eccessiva, graffiante e decadente, Sorrentino punta invece su moderazione, equilibrio e ironia. Insomma, rinuncia in gran parte ad essere se stesso per cercare il vero se stesso: l'ultima eredità che gli hanno lasciato i suoi genitori. Ovviamente non dà soluzioni al suo dolore ma offre forse una sorta di conforto affinché il ricordo diventi uno strumento se non per dimenticare quanto meno per venire a patti con dolori che comunque non si possono abbandonare.