Cultura e spettacolo

E' la storia dal respiro hollywoodiano di quattro 'diversi' nella Roma del 1943
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Freaks Out film copertina

Nel 2015 uscì l’opera prima bizzarra e curiosa di Gabriele Mainetti, ‘Lo chiamavano Jeeg Robot’, che con ironia ed eccentricità parlava di supereroi nostrani e superpoteri. Ci sono voluti sei anni – di cui tre di lavorazione e due di post-produzione con quasi tredici milioni di budget e un’uscita ritardata a causa della pandemia - per realizzare il suo secondo film, ‘Freaks out’, dove troviamo ancora superpoteri ma certamente non supereroi.

Nella Roma del 1943 occupata dei nazisti quattro ‘freaks’, termine che in inglese significa letteralmente ‘scherzo della natura’, si esibiscono come artisti nel circo dell’ebreo Israel che funziona un po' da loro padre putativo: c’è l’albino Cencio che crea bellissimi spettacoli con lucciole e altri insetti che è in grado di controllare; Mario, la calamita umana in grado di attirare su di sé qualsiasi oggetto di ferro; Fulvio, l’uomo lupo con tutto il corpo coperto da peli che mostra una forza disumana e la giovane Matilde che ipnotizza il pubblico accendendo le lampadine con le mani e con la bocca. Il loro è un microcosmo autosufficiente fatto di affetto, risate e innocenza che va bruscamente in frantumi quando Israel scompare misteriosamente e nel cercarlo vengono catturati da un ufficiale nazista in grado di vedere il futuro per il quale i quattro rappresentano l’unica speranza di vincere la guerra, il motivo per cui vorrebbe portarli in dono al Führer. Inizia così un’avventura folle – si perdono, si ritrovano, si perdono di nuovo – in una realtà che non conoscono resa ancor più difficile e problematica dalla guerra in corso che li porta ad uscire da quella ‘comfort zone’ nella quale erano sempre vissuti.

‘Freaks out’ è un film che dà un significato nuovo al cinema italiano. Non tanto per i temi che affronta, pure importanti, cui si avvicina con passione e rispetto ma certamente non inediti – racconto d’avventura, romanzo di formazione, riflessione sulla diversità – quanto per come vengono affrontati: in maniera grandiosa ed epica, avvincente e stimolante, davvero una novità.

Per certi versi siamo ancora dalle parti di ‘Jeeg Robot’ ma senza replicarlo, anzi prendendone in qualche modo le distanze perché qui la forza dei protagonisti più che dai singoli poteri nasce dall’unione di quattro persone speciali viste senza alcun pietismo perché sono loro stessi i primi a rifiutare ogni autocommiserazione, a non viversi come ‘mostri’ ma semplicemente come singoli individui. Stilisticamente Mainetti si rifà ad un mondo dark che ricorda quello di Tim Burton miscelandolo con le atmosfere tipiche del romanzo picaresco nostrano (vedi ‘L’armata Brancaleone’) e con suggestioni prese a prestito da Tarantino, Spielberg e perfino Leone: quello che ne viene fuori è un mix dove si fondono magia e poesia e dove il cammino dei quattro freak (Claudio Santamaria, Giancarlo Martini, Pietro Castellitto e una scintillante Aurora Giovinazzo) è sostanzialmente quello della ricerca di ciò che veramente sono, al di là dei loro poteri.

Un percorso che li porterà alla fine a comprendere come la diversità per la quale sono stati rifiutati o derisi sia un dono e non una maledizione e che si può decidere di stare insieme non perché costretti dalle proprie paure o dalle circostanze ma per una scelta libera e condivisa, per un comune senso di appartenenza. D’accordo, non è un film perfetto, 140 minuti sono troppi, soprattutto verso la fine qualcosa si sarebbe potuta tagliare ma non c’è dubbio che la complessità della narrazione corrisponda perfettamente alla sua imponente portata visiva così come pure lo spessore dei protagonisti: quattro outsider che non vogliono assolutamente conformarsi a ciò che è considerato "normale" da una società estremamente imperfetta.