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Ma quante lacrime abbiamo a disposizione? Quante, da versare nei momenti di dolore vero? E’ la prima cosa che mi viene in mente andando indietro di venticinque anni, quando l’11 gennaio 1999 ci lasciò Fabrizio De André. Tre giorni dopo, ai funerali nella Basilica di Carignano dove mi trovavo per motivi di lavoro (una folla immensa dentro e fuori, big come Fernanda Pivano, Vasco Rossi, Ligabue, Gianna Nannini, Fiorella Mannoia, Ivano Fossati ma soprattutto una marea di gente comune) rimasi profondamente colpito da una ragazza – l’ho ancora davanti agli occhi: un quindicina d’anni, cappotto blu, lunga sciarpa verde intorno al collo, un papavero rosso in mano, uno dei mille della Guerra di Piero? - che piangeva, e piangeva, e piangeva. Non avrebbe smesso mai, in tutta la mattina, inutilmente consolata da un’amica.

Nel suo irrefrenabile dolore quella ragazza era il commovente ritratto di tutti coloro che si sono riconosciuti nel poeta scomodo ed irrequieto che è stato De André, sempre portavoce delle contraddizioni di un mondo apparentemente rassegnato. Dopo un quarto di secolo dire che se ne sente ancora la mancanza è fin troppo banale ma quando i tempi sono purtroppo incerti e confusi come quelli che stiamo vivendo la mancanza di un pensatore libero davvero, di un’anima salva fuori da qualsiasi schema e qualsivoglia paradigma, fuori dal coro saccente dei soliti noti crea un vuoto ancora maggiore, una voragine addirittura.

Così l’assenza di Faber, quel curioso soprannome che gli aveva dato l’amico Paolo Villaggio sottolineando in questo modo l'assonanza tra il nome di battesimo e la grande passione che aveva per i pastelli colorati di una marca a quei tempi molto nota, continua a pesare. Certo, le poesie che ha schizzato sul pentagramma ormai inserite in molte antologie scolastiche continueranno ad alimentare la colonna sonora di milioni di persone ma più di ogni parola, più di ogni ricordo va sottolineato il modo con cui giovani e giovanissimi, poco più che bambini quando lui è scomparso, abbiano deciso comunque di adottarlo come un fratello maggiore, navigando a vista tra i fondali della sua poetica, tra i suoi versi e la nostra attualità, facendo proprio quel racconto di sofferenza e dolore per un’umanità schiacciata dal Potere che De André ha cantato come nessun altro, prima e dopo di lui.

Ed è proprio questa sua trasversalità che radunò a Carignano, dove sembrava essersi concentrato lo strazio di un’intera città, più di diecimila persone che videro riflessa la propria tristezza nel volto e negli occhi di chi stava loro accanto. Per un attimo nella vita, prima di riprendere il cammino di sempre, compagni nel dolore, uniti dalla sofferenza. Migliaia di saluti, tutti diversi. Me ne segnai uno lasciato sul grande libro che li raccoglieva all’ingresso della chiesa, quello di ‘Francesco 78’ che con la sua frase “Non posso credere che tu sia morto, a me hai impedito tante volte di morire” si era reso inconsapevole testimone della sua insicura e fragile generazione.

Viene infine da pensare come la morte dell’uomo De André abbia paradossalmente e clamorosamente smentito il poeta De André e quanto aveva scritto ne Il testamento: “Cari fratelli dell’altra sponda/cantammo in coro già sulla terra/amammo tutti l’identica donna/partimmo in mille per la stessa guerra/questo ricordo non vi consoli/quando si muore si muore soli”. La realtà è diversa: morire soli capiterà forse a noi, persone comuni, non a chi è riuscito ad avere il dono prezioso e raro di entrare nel cuore della gente e non uscirne più. E tra questa gente un posto in prima fila resterà per sempre appannaggio di una ragazza ormai donna con il cappotto blu e un papavero in mano che mentre la bara si stava avviando al cimitero di Staglieno era ancora lì, a piangere tutte le lacrime del mondo. Quante mai gliene saranno rimaste?