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Altro che Genova capitale del libro, del Mediterraneo, financo del formaggio e dei jeans, come le politiche spinte del marketing moderno suggeriscono a raffica. Oggi in questo clima terremotato della transizione ecologica ed energetica, di fronte allo sconquasso ambientale, spunta un altro primato un tempo rivendicato e poi sepolto tanto diverso da quelli di oggi: Genova capitale del nucleare. Un primato della storia e forse anche dall’economia: quello sbandierato tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli Ottanta del fatidico referendum, appunto sul nucleare e sulle centrali che si dovevano costruire in Italia.

Il nucleare è tornato in auge prepotentemente non solo nella esplosiva e contraddittoria riunione delle Coop 28 a Dubai, ma perfino in un sensazionale documentario del regista premio Nobel Olivier Stone, intitolato “Nuclear now”, trasmesso molto recentemente anche in televisione.

Già, perché quando il tema nucleare era in grande spinta, passati gli choc post bellici, in Italia Genova era stata scelta come capitale, grazie alla sua struttura industriale, così forte e così poggiata sulle aziende Iri e soprattutto sulla grande tradizione dell’Ansaldo. Se ne è parlato anche in una prestigiosa e ricchissima (di notizie) tavola rotonda, organizzata dall’Accademia di Scienze e Lettere a Palazzo Ducale e trasmessa in diretta da Primocanale. Lì è emersa per la prima volta una vera linea di transizione energetica ed ecologica, spiegata da istituzioni, pubblici amministratori, studiosi, imprenditori di tutte le filiere energetiche e rappresentati al massimo livello. E quella linea ha contemplato anche il ritorno al nucleare. Con cautela, ma in modo chiaro.

Alla fine degli anni Sessanta la città aveva perso asset importanti della sua geografia industriale: la direzione del colosso Fincantieri, trasferita a Trieste e aveva dovuto fare i conti con il trasferimento a Roma delle direzioni della “Esso” e della “Schell”.
Tre enormi centri direzionali, migliaia di posti di lavoro e di “cervelli” che lasciavano la città.

Ci fu una battaglia durissima tra Genova e il governo di centro sinistra di allora, dove sedeva, tra gli altri, il ministro genovese più potente della nostra storia, Paolo Emilio Taviani.

Finì che a Genova fu concesso un “pacchetto compensativo”, che comprendeva la costruzione dell’autostrada A 26 Genova-Alessandria- Gravellona Toce e il ruolo di capitale del nucleare, che voleva dire trasferire risorse e uomini per la progettazione e costruzione di centrali presso Genova e in particolare all’Ansaldo, già ricca di competenze, che sarebbero cresciute esponenzialmente negli anni seguenti, sotto la guida di personaggi come Giovanni Gambardella, Daniele Milvio e tanti altri superingegneri, che si erano formati nella Nira, con sede in quel grande palazzo alla Fiera del Mare, recentemente demolito per fare spazio al Water front di Levante.
Canali, acqua, promenade, piste ciclabili, disegnati dalla matita di Renzo Piano, dove allora crescevano le teste d’uovo del nucleare: questo è il destino di una città che cambia….

Sappiamo come è finita: la battaglia del Psi di Craxi e Martelli contro il nucleare, il referendum fatidico, la cancellazione di quella opzione, le centrali già avviate, come Caorso e Montaldo di Castro stoppate, la retromarcia di tanti ingegneri e esperti sopratutto genovesi. La capriola di Genova che azzerava quella opzione di sviluppo.

Il film di Olivier Stone riassume bene tutta la storia del nucleare, della reazione del mondo rispetto a quella forma di energia. Il grande regista fa viaggiare il film dalla minaccia bellica, da Hiroshima al terrore della guerra atomica, alle battaglie contro, alle mobilitazioni, all’equilibrio del terrore tra le grandi potenze, alla crisi di Cuba con le testate nucleari già innescate e poi alla lunga sequenza di incidenti nelle centrali costruite nel mondo: Cernobyl, Fushiama in Giappone e altri ancora, mentre la coscienza anti-nucleare maturava esponenzialmente.

E poi l'improvviso dietrofront degli ultimissimi anni, quando la rapidità del cambiamento climatico e la minaccia delle fonti energetiche fossili, il loro sviluppo, con il petrolio, il carbone e il gas, contro la lentezza di quelle rinnovabili, ha riportato in auge il nucleare, che certo non era rimasto accantonato, ma progrediva con i reattori verso la quarta generazione. Così di colpo il diavolo si è trasformato non in un angelo, ma in una strada di salvezza che soprattutto le ultime generazioni, non scioccate dalla lunga storia negativa, stanno imboccando più velocemente di quanto si poteva immaginare.

Allora Genova, che era il centro di quella storia e avrebbe modellato una parte del suo sviluppo sulla spinta nucleare, può oggi contemplare a rovescio quella vecchia ipotesi, mettendola in una casella storica meno negativa di allora, non certo in un programma di sviluppo, anche se qua molte competenze sono rimaste, a incominciare da quelle custodite in Ansaldo Energia. Certo non si può parlare di un ritorno al futuro, ma piuttosto fare un ragionamento sugli equilibri di un sistema economico di sviluppo per Genova, questo sì.

Non esistono solo il turismo e i servizi e se il nucleare, rivalutato da una emergenza planetaria, rispunta, ma non certo dove stava impiantandosi, ci sono altri settori essenziali per quell’equilibrio.

I casi caldissimi di Ansaldo Energia e ancor di più dell’acciaio, che si rischia di perdere a Taranto come a Genova e Novi, ricordano le vecchie teorie americane di John Naisbitt, uno studioso che negli anni Ottanta spiegava in un celebre libro, “Megatrend”, come una grande città regga se viene mantenuta in maniera consistente anche la sua quota di industria. Non si può vivere solo di turismo, di servizi, di infrastrutture, di eventi, ma ci vuole anche la produzione industriale e questo era l’antico “modello Genova”, proiettata allora verso il turismo dal famoso Cinquecentenario Colombiano e già incerta sul mantenere la sua storia industriale.

Che ha continuato a sfiorire, anno dopo anno, decennio dopo decennio, in una deriva che non si ferma, tra chiusure e scippi anche di Stato, in una desertificazione di imprenditori pubblici e privati. E dove perfino il nucleare, il vecchio diavolo, potrebbe essere rivalutato e “rivisto” come si dice oggi.

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