Politica

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Il Carlo Felice è diventato un incubo. Ora molla anche il direttore d’orchestra. Ha l’aria del comandante che abbandona la nave che affonda. Gli spettatori attoniti non capiscono. Le “prime” sono un optional: ci sono, non ci sono. Il sindaco-presidente deve salire sul palco davanti all’orchestra e al coro muti per sedare gli animi. Il sovrintendente tappa una falla e subito se ne apre un’altra. Il consiglio di amministrazione tace (che cosa sta facendo?). Gli sponsor scalpitano: buttano soldi dentro questa macchina per farla restare in moto e ogni volta che la macchina deve partire qualcuno la ferma. I soldi pubblici finiscono triturati in questo meccanismo. Qualcuno già comincia a chiedersi: ma ne vale proprio la pena? In queste incredibili condizioni disperate è ancora concepibile che un grande teatro dell’opera sopravviva?

Pochi giorni fa è morto uno degli amministratori che vent’anni fa lottò per la ricostruzione del teatro, distrutto dai bombardamenti della guerra. Era Renato Drovandi, vecchio e saggio comunista. Insieme al sindaco di allora, Fulvio Cerofolini e all’assessore al Bilancio, Franco Monteverde, riuscirono a ricostruire dalle macerie un eccezionale teatro lirico, forse troppo grande e bello per questa città.

Drovandi non fu nemmeno invitato quando il nuovo teatro venne inaugurato: gli amministratori di quegli anni se ne dimenticarono.

Anche allora l’inaugurazione fu un’incognita e la salvò Riccardo garrone, con una potente iniezione di miliardi, chiedendo in cambio alcune cose che non furono mai realizzate.

Poi una odissea di liti, ripicche, scioperi, minacce, cambi di sovrintendenti. In questo oceano tempestoso il Carlo Felice è andato avanti, un po’ avanti e un po’ indietro. Ora ho l’impressione che sia vicino al capolinea. Così non si naviga più, la città non può permetterselo perché è sommersa di gravi e seri problemi. Come possiamo far capire a chi non riesce a finire il mese che i milioni spesi per il Carlo Felice sono un giusto investimento? Al di là dello stupido populismo, qui c’è una questione morale. I soldi alla cultura sono indispensabili per la crescita del paese e della nostra città, ma se vengono bruciati in questo modo, il discorso cambia. E qualcuno può anche permettersi di pensare che meglio la pagnotta di un do di petto che rischia di diventare una stecca.