Credevo di avere avuto una apparizione, in uno dei miei consueti girovagare per il centro storico, che è una sorta di medicina dell'anima, di riappacificazione con la mia città, di ispezione da vecchio cronista che ha bisogno di verificare lo stato delle antiche pietre, i percorsi di una vita, le novità emerse, magari con la pandemia blocca tutto e ora delle riaperture, fiorite di tavolini, dehors, banchetti.
No, non ero davanti al trionfo di folla dei Giardini Luzzati, in attesa di una partita europea tinta d’azzurro, nè in vista della movida più o meno selvaggia che calava da Matteotti o saliva dalla antica ripa. E non ero neppure ai bordi del Porto Antico, in quel colossale melting pot che ti sembra di essere sbarcato a rovescio di Colombo in America per i suoni e i richiami che senti, mentre il sapore delle acque del porto ti assale di colpo.
No, ero in uno degli angoli più segreti e ombelicali, in quella piazzetta Giustiniani che scopri di colpo, arrivando dalla folla di san Lorenzo e percorrendo Chiabrera o dove sbuchi salendo per Giustiniani con alle spalle le due chiese di san Giorgio, magari pensando all'ultima performance dell’incontenibile e ora di nuovo biblizzato don Farinella, il prete che diede la spinta a Siri e che chiude la sua chiesa per rappresaglia contro il Natale dei consumi.
Ed ecco la visione: la piazzetta che si apre davanti al nobile antico palazzo omonimo e offre il suo spazio davanti agli altri palazzi storici era piena di alberi, di verde, di piante che la ornavano e arricchivano per ogni lato. Un’oasi in mezzo alle pietre, al cemento, ai dedali dei vicoli incrociati, delle altre piazzette che si aprono come varchi spesso improvvisi, uno spazio verde da respirare dove molte volte la luce arriva a stento, piovendo dall'alto, da quel cielo così difficile da misurare dallo sprofondo delle case alte, una che sembra sorreggere l’altra.
Avevano riempito Giustiniani di quel verde per un Evento di design che doveva abbellire la sua piccola e preziosa area. Ma l’effetto era fantastico: fatte le dovute proporzioni, quello di chi marciando nel deserto raggiunge un’oasi.
E allora ho pensato a come cambierebbe il nostro centro storico se gli antichi progetti, sepolti nella polvere di coraggiosi architetti e urbanisti, si fossero mai realizzati: riempire il centro storico, quello che il vecchio funanbolico don Gianni Baget Bozzo chiamava, con un pizzico di snobismo "città antica", di verde, di alberi, di piante, di siepi, di vasi di fiori, di bunganville, rampicanti, rimontanti con i loro colori. Dove si poteva, dove si voleva, in base a una mappa ragionata con la antica tradizione giardiniera che la Genova di pietra e di sassi e di cemento ha sempre conservato, dai mitici Viacava che abitavano la Villetta di Negro all'Aster di oggi, che rianima le aiuole perfino nel traffico intasato di Brigate Partigiane.
Eccolo il più veloce dei piani caruggi, il respiro, la transizione ecologica da realizzare subito, mentre ci si scanna sulla movida e si cerca una soluzione alla vivibilità del centro storico, ai suoi confini tra zona residenziale e area di sfogo per i ragazzi liberati dai lock down, in una città affamata di spazi. Il piano verde.
E pensavo ai 10 mila alberi che Renzo Piano, nel suo progetto del 2006 del Water Front, affossato dalle bramosie di pochi industriali più attenti alo loro incasso che alla città, oggi sepolto nelle bacheche del Museo del Mare, voleva piantare in porto. Visioni, sogni, appunto miraggi da antico viaggiatore di città? Sono rimasto per un bel po a bearmi del verde (provvisorio ahimè) di Giustiniani e poi lentamente sono risalito, sapendo bene che il primo verde, il primo albero lo avrei trovato ben lontano, salendo e risalendo, come Pollicino nella favola, fino a Corvetto, in mezzo alle macchine.
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L'oasi nei caruggi e il piano dimenticato
E allora ho pensato a come cambierebbe il nostro centro storico se gli antichi progetti si fossero realizzati
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