cronaca

La periferia contenitore di tutte le "grane" della città
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C'era una volta un grande sindacalista della Cgil, molto attaccato al suo territorio che andava da Cornigliano a Voltri e aveva la sua base a Sestri Ponente. Si chiamava Franco Sartori e tutte le volte che gli chiedevi notizie sulle grandi turbolenze e battaglie di quel pezzo della città, così cruciale negli anni Ottanta e Novanta della pesante trasformazione post industriale, ti invitava “ sul luogo”.

Ti conduceva su quella collina, che è ai piedi degli Erzelli e ai piedi della stupenda Abbazia di sant'Andrea, dove Giovanni Gambardella, potente amministratore delegato di Finsider, aveva piazzato i cervelli di “Genova Ricerche”.

Poi, con quel fare burbero e brusco dei sindacalisti da battaglia, ti indicava il Ponente, allungando il braccio verso Sestri distesa là sotto e poi Multedo con i suoi depositi petroli e poi Prà, cancellata dalle dighe portuali e poi Voltri, con l'allora nascituro porto-satellite. E poi si girava verso l'interno e alludeva alla Valpolcevera alle spalle e ti diceva la fatidica frase: “Vedi, a Genova quando c'è un problema lo imbelinano a Ponente”.

Voleva dire che nel corso dei decenni, dei lustri, forse oramai, dei secoli, la città aveva scaricato su quella parte di città le parti dure della propria storia industriale. Avevano riempito il mare per costruire l'acciaieria e scavato la costa per metterci i cantieri delle navi, avevano rosicchiato le colline per fare piste aeroportuali, avevano segato di nuovo la costa per metterci il Porto Petroli e tutte le più grandi fabbriche, da Sampierdarena, la cosidetta Manchester d'Italia in avanti e la Valpolcevera era diventata il contenitore delle raffinerie, dei depositi, dei grandi stabilimenti di Campi, della Sanac, dei Bruzzo. E di tanto d'altro.

Diceva “Ponente”, il Franco Sartori, con quel tono insieme di denuncia, di rivendicazione, ma anche di amore, di passione per chi ci viveva, strangolato tra tutte quelle “servitù territoriali”, imposte dalla storia e dall'economia, con una cadenza da panzer industriali: da Cavour in avanti, fino ai manager dell'Iri.

Poi ti portava a bere un caffè in un bar di Cornigliano e misuravi con il naso e con il bianco della tua camicia subito annerita, quello che allora era il problema numero uno, appunto del Ponente, i fumi dell'Italsider, l'inquinamento dell'altoforno del ciclo continuo, lo Sputafuoco di quel “mostro”, che produceva acciaio a colata continua.

Poi Sartori se ne andava con il suo passo pesante, carico di responsabilità e tu restavi a Cornigliano in quella camera a gas delle strade intorno alla Grande Acciaieria. Incontravi al mercato del pesce, che ci volevaa una grande ironia a chiamare così quel posto, a ridosso dei muraglioni Italsider, lontanissimo da un mare rubato e dimenticato, nello sprofondo delle strade di case da operai parallele allo Stabilimento, dove c'erano le donne di Cornigliano, le pasionarie che, per prime e da sole, si erano messe a lottare contro i fumi.

Le capeggiavano due ragazze di grande forza e carattere, la Leila Maiocco, bella e affascinante con una treccia lunghissima che le scendeva lungo tutta la schiena, che faceva girare la testa ai giornalisti e incantava i sindacalisti e i politici, mettendoli spalle al muro e la Patrizia Avagnina, tutta diversa, nera, decisa, diretta. Riunivano le donne al mercato del pesce e gli uomini al Centro Civico e scatenavano la battaglia contro i fumi. Che voleva dire contro l'inquinamento, che asfissiava la delegazione.

Era il grande scontro tra l'ambiente da difendere e il lavoro che sarebbe stato minacciato, se “Sputafuoco” avesse smesso di produrre, di colare acciaio. Uno scontro lacerante, duro, che spezzava la sinistra genovese di governo della città, della Regione, della Provincia, che coinvolgeva i sindaci, i presidenti, e sopratutto il Pci di allora, duro, forte al 40 per cento dei voti a Genova.

Con le donne o con gli operai? Con le donne che ti portavano nello loro case sigillate anche a agosto, con i centrini ricamati, neri di fumi anche nel tinello di casa o con gli operai e i sindacalisti che uscivano a migliaia e migliaia dalla fabbrica, I turno, II turno, III turno notturno e il fuoco, le fiamme, l'acciaio.

Aveva ragione il sindacalista Franco Sartori, il problema della durissima convivenza tra l'ambiente di Cornigliano e la produzione dell'Italsider, che occupava più di tredicimila operai e in più gli impiegati in via Corsica, i genovesi lo avevano “imbelinato” a Ponente.

Anni di lotte, di lacerazioni, lente prese di coscienza, privatizzatzione dell'Ilva nel 1989, venduta per pochi spiccioli all'industriale lombardo,“mangianebbia”, Emilio Riva, come lo chiamavano i Sartori, la ricerca di soluzioni che compensassero il lavoro e l'ambiente e alla fine, nel 2005, il famoso accordo, le ultime tavole della legge, con la fine dell'altoforno, delle cookerie, solo produzione a freddo.

Oggi l'acciaieria è un altro problema, di spazi da recuperare e da utilizzare, in una città nella quale si è spento ben altro, oltre che l'altoforno, ma Cornigliano respira. Rifaranno via Cornigliano che diventerà zona pedonale, respirano e respireranno meglio, ma chi restituirà i decenni perduti e chi calcolerà con giustizia se è stato corretto scegliere il lavoro e far affumicare un pezzo di quel Ponente?