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Sulle riforme Verdini decisivo, ma il premier guarda oltre
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Se vogliamo essere intellettualmente onesti, bisogna dire che Matteo Renzi su due punti ha ragione. Il primo: nelle riforme costituzionali, la maggioranza è di regola trasversale e non assimilabile tout court a quella che sostiene un governo. Il secondo: sulla modifica del Senato, è stata Forza Italia a rovesciare il proprio atteggiamento (prima ha contribuito alla stesura e l'ha votata), non Denis Verdini e i suoi fedelissimi raggruppati in Ala.

Ciò premesso, il premier non può negare il dato politico che emerge dall'ultima votazione a Palazzo Madama. Cifre alla mano, senza "l'aiutino" di Verdini e di qualche altro transfuga forzista Renzi sarebbe stato battuto su quella riforma che, dice, segna lo spartiacque del suo destino: "Se perdo il referendum confermativo me ne vado a casa". In base alle bizantine dinamiche parlamentari, finché Ala non voterà la fiducia al governo sarà fuori dal perimetro della maggioranza. Nondimeno, i verdiniani hanno portato già all'incasso la prima cambiale per il loro sostegno, incamerando tre vicepresidenze di Commissione.

Nel Pd, ovviamente, è scoppiato il putiferio, ma ancora una volta si assiste ad un balletto che di risolutivo non ha alcunché. Molte parole, tanti distinguo, a cominciare da quello di Pierluigi Bersani, e però nessun atto concreto che argini, in modo organizzato, la deriva personalistica di Renzi nella gestione dell'universo dem. Si continua a parlare di svolta verso il centro che dovrebbe condurre alla nascita del cosiddetto Partito della Nazione, un contenitore stile vecchia Dc che dovrebbe mettere insieme anche il mondo moderato in passato patrimonio soprattutto di Forza Italia.

Ci sono certamente molti elementi e corroborare questa tesi, ma alla fine potrebbe pure accadere che Renzi non abbia alcun bisogno di cambiare nome al Pd. Potrebbe cambiarne pelle semplicemente andando a rastrellare i voti del centro con lo strumento che ha già in mano e che ogni giorno è sempre più distante da ciò che era in origine. Cioè un partito a trazione post-comunista, pur essendosi costituito con la fusione a freddo che ha inglobato il mondo cattolico e laico post-democristiano che guardava a sinistra già ai tempi del pentapartito (Dc, Psi, Psdi, Pri e Pli) e che non si era fatto suggestionare dalle sirene berlusconiane.

Questa eventualità è resa tanto più verosimile dal fatto che finora ogni spinta centrifuga non ha trovato nel Pd alcuna conseguenza reale, a parte qualche manciata di fuoriusciti che ora faticano a trovare unità di intenti e modelli organizzativi credibili agli occhi del corpo elettorale. Bersani e compagni stanno portando avanti un gioco dell'elastico che non giova alla chiarezza delle loro posizioni e, soprattutto, concede sempre più tempo a Renzi nello stringere la presa sul partito.

Basta far caso a un elemento: molti degli oppositori iniziali si dichiarano oggi folgorati sulla via di Damasco e si sono convertiti al renzismo in nome di una realpolitik prim'ancora personale che di principio. In circolazione ci sono ancora tantissimi professionisti della politica che tengono famiglia e non possono permettersi il lusso di finire rottamati, cioè senza incarichi che consentano loro di mettere insieme il pranzo con la cena. Così, mentre gli oppositori interni si perdono in discussioni filosofiche, il premier va avanti come un carrarmato nel militarizzare il Pd, il governo e quanto ruota intorno ad essi.

Alcuni degli ultimi provvedimenti sono lì a dimostrarlo. In particolare quando si tratta di nomine e, quindi, di poltrone remunerate. Sarà un caso che per le aziende partecipate, sia di Stato sia delle istituzioni locali, Palazzo Chigi si sia riservato la possibilità, nei fatti, di procedere direttamente alle scelte? La stessa idea di sostituire i consigli di amministrazione con degli amministratori unici va in questa direzione, anche se viene presentata solo come un disboscamento degli incarichi e una riduzione dei costi. E la stessa centralizzazione delle nomine dei presidenti di Autorità portuale (decide il Ministero sentite le Regioni interessate) la dice lunga su come procederà Renzi.

Nel giro di pochi mesi, dunque, il premier metterà insieme un esercito di soldati che dovrà essergli grato e che si muoverà ventre a terra per portare al capo i voti necessari per vincere il referendum sulle riforme e, ancor prima, per portare a casa dei buoni risultati alle amministrative di primavera. Se si guarda bene, è la stessa logica che spingeva Renzi a volere Giuseppe Sala candidato unico come sindaco di Milano. Con gli appalti dell'Expo, Sala ha beneficiato una miriade di imprese e persone e con questa realtà, traducibile in consenso, dovranno fare i conti tutti i suoi avversari, a cominciare dalla genovese Francesca Balzani.

Al tirar delle somme, sarà pur vero, come dice il leader della Lega Matteo Salvini, che "la maggioranza con Verdini è da vomito". Ed è vero che il caso politico, l'inopportunità di un simile legame (che ha pure un forte retrogusto di massoneria, come scrisse l'ex direttore del Corriere Ferruccio de Bortoli) sta sotto gli occhi di tutti. Ma Renzi ha già dato ampia dimostrazione di non preoccuparsi affatto di cose simili. Del resto, disse a Enrico Letta di stare sereno proprio mentre si preparava a sostituirlo. Serve altro?