economia

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L’orgoglio e la sfida. Si può inquadrare così il ragionamento con cui l’amministratore delegato di Banca Carige, Piero Montani, inquadra le iniziative messe a punte per portare il principale istituto di credito ligure in linea con le prescrizioni della Bce. L’aumento di capitale da 850 milioni, superiore a quanto previsto, e la cessione di crediti in sofferenza fino a 1,5 miliardi sono i due caposaldi di un’operazione complessa, il cui obiettivo finale è dare alla “banca dei liguri” una nuova solidità. “Vorremmo al più presto un nuovo stress test da parte della Bce - dice Montani – perché quello precedente è stato fatto sul bilancio 2013, il peggiore nella storia della Carige. Quest’anno non li hanno fatti e quando li faranno vedremo quali saranno i risultati”.

Appunto. L’orgoglio di aver realizzato ciò che sembrava persino impossibile, con una pulizia “monstre” dei conti, e la sfida di potersi cimentare il più presto possibile davanti all’istituto europeo di vigilanza, per ottenere quel “sigillo di qualità” derivante dai risultati conseguiti. Per il management di Carige, con il presidente Cesare Castelbarco Albani in prima fila, non sono stati mesi semplici. Complicati anche dalle pessime condizioni in cui si è trovata la Fondazione e conseguenti relazioni con il principale azionista improntate addirittura al gelo, almeno in alcuni passaggi.

L’arrivo di un nuovo socio di maggioranza, il gruppo che fa capo a Vittorio Malacalza, ha svelenito il clima e dato al mondo della finanza una essenziale iniezione di fiducia. I Malacalza sono noti per essere una delle famiglie italiane con più liquidità, ma allo stesso tempo conosciuti per non essere dei dilapidatori di capitali solo per concedersi il diversivo di qualche “gioco”. Che proprio loro abbiano deciso di investire su Carige è stata la migliore testimonianza del valore del lavoro portato avanti dal management e le successive performance in Borsa ha segnato un importante rigurgito di fiducia verso la banca ligure.

I passaggi scaturiti dal consiglio d’amministrazione – ricapitalizzazione e piano industriale, in cui è prevista la cessione di crediti in sofferenza – sono passi importanti non solo verso la Bce, ma soprattutto verso il mercato. Un percorso che prosegue sì all’insegna del risanamento, ma adesso anche tornando a guardare con più nettezza allo sviluppo. Ecco perché, ad esempio, l’aumento di capitale superiore al previsto non va considerato come uno sforzo aggiuntivo richiesto ai soci (e per i piccoli azionisti si tratterà dell’ennesimo sacrificio), bensì come una mossa strategica: potrebbe consentire di non obbligare alla cessione di Banca Cesare Ponti, un gioiellino che in prospettiva potrebbe garantire più del prezzo offerto da chi volesse acquistarla. Sempre che non si tratti della classica proposta che non si può rifiutare, come può accadere alla Juventus per il fantastico Pogba per ricorrere ad un parallelo calcistico.

Questo modo di pensare le strategie, quindi, la dice lunga su come viene gestita l’attuale fase, che resta comunque delicata, in Banca Carige. E se accanto ai Malacalza dovessero spuntare altri soci importanti (l’Investindustrial di Aldo Bonomi, giusto per riferirsi a chi a lungo è stato indicato come interessato al dossier) magari la partita si farebbe più dura sul versante dei rapporti fra gli azionisti, ma certo Castelbarco e Montani non potrebbero che stropicciarsi le mani, considerando l’ulteriore rafforzamento che ne deriverebbe.

Non è pero tutto rose e fiori. C’è ancora molto da fare e la coesione del management e del management con i soci sono elementi fondamentali. Un po’ meno lo è, verrebbe da dire finalmente, il rapporto con la Fondazione, non fosse altro perché una volta per tutte la sua riduzione a una posizione marginale (quota fra lo 0,3 e lo 0,5%) e salvato (per ora?) un posto nel Cda (come sentinella di non meglio indentificati e identificabili interessi del territorio) recide il cordone ombelicale della banca con la politica. La Fondazione, al di là di valutazioni da sepolcri imbiancati, ne è da sempre l’espressione, oltretutto non propriamente nella versione più nobile, come i fatti si sono incaricati di dimostrare nel tempo.

Questi fatti pesano ancora come macigni. E quando Montani parla di crediti in sofferenza fino a 1,5 miliardi di euro da dismettere “per ridurre un fardello che altrimenti limiterà l’azione di sviluppo della banca” il pensiero inevitabilmente corre a come e perché quel fardello sia finito sulla schiena di Carige. Difficile non ricordare operazioni spericolate al servizio di soci diventati debitori, oppure finanziamenti su iniziative – leggasi il caso Erzelli – il cui principale pregio non era la sostenibilità finanziaria, bensì il rispondere a logiche politiche (un giochetto che vale 250 milioni di “sofferenza”), le stesse che hanno sovrinteso erogazioni per le quali non si comprende la finalità industriale, ma avendo ben chiara l’appartenenza a una ristretta cerchia di amici e amici degli amici.

E’ l’eredità lasciata dalla precedente gestione, quella che faceva capo a Giovanni Berneschi, travolto da uno scandalo giudiziario inimmaginabile nei suoi contorni. Oggi Berneschi è il facile bersaglio di ogni responsabilità. La patata bollente di quelle giudiziarie se la pelerà con la giustizia, ma poi ci sono i gravami finanziari non penalmente rilevanti che hanno trasformato Banca Carige in un gigante con i piedi d’argilla. In questa responsabilità, Berneschi ha avuto molti complici, che ancora occupano posti di rilievo nelle istituzioni, nella politica, nella finanza e nel mondo delle imprese. Lui dava, ma dava perché c’era chi chiedeva. Anzi pretendeva. E a lui, per coltivare il proprio potere, non pareva neppur vero di poter rispondere “ecco i soldi”. E così teneva in pugno tutti. Con gli organismi di vigilanza italiani perennemente voltati dall’altra parte.