economia

L'editoriale
6 minuti e 16 secondi di lettura
L’arrivo della famiglia Malacalza come primo azionista di Banca Carige è quasi una “non notizia”. Oltre un anno fa, a margine di un evento nello stabilimento spezzino della sua Asg, il patron del gruppo, Vittorio, a precisa domanda su un interesse verso il principale istituto di credito ligure, se ne uscì così: “Mai dire mai”. Seguì un’impennata del titolo Carige in Borsa e da lì in poi non ci sono state cronache che abbiano escluso le nozze consumatesi ieri. Corroborate da una serie di “tracce” che disegnavano, come i sassolini di Pollicino, il percorso verso l’approdo finale.

Oggi un po’ tutti si interrogano sul perché uno dei gruppi imprenditoriali italiani con maggiore liquidità disponibile si muova su Carige. Malacalza dà la risposta più ovvia: “Nell’interesse nostro e per dare una mano a quello di Genova e della Liguria”. In questo momento, e date le pietose condizioni finanziarie della Fondazione, la coincidenza è solare. Il punto è verificare, e solo i fatti potranno dirlo, fino a quando questa coincidenza di interessi durerà. E questo porta al vero elemento chiave della vicenda, alla domanda delle cento pistole: come si muoveranno i Malacalza?

Per tentare una risposta bisogna affrontare almeno tre questioni, più una quarta di contorno localistico. La prima riguarda il destino dell’attuale vertice della banca, il presidente Cesare Castelbarco Albani e, soprattutto, l’amministratore delegato Piero Montani. Vittorio Malacalza li ha incontrati entrambi, in almeno un paio di occasioni, e sebbene straveda (ci sono state esplicite dichiarazioni) per il manager bancario Giampiero Maioli (Cariparma), al momento non sembra avere intenzione di rivoluzionare, con il proprio arrivo, un assetto che ha garantito a Carige la (quasi) uscita dal tunnel in cui l’aveva improvvidamente infilata il padre-padrone Giovanni Berneschi. In questo caso la continuità sembra la migliore garanzia per lo stesso investitore, che probabilmente se l’è sentito spiegare anche quando è andato in Bankitalia per appurare il gradimento di Palazzo Koch sulla propria iniziativa.

I trascorsi di Vittorio Malacalza, tuttavia, lo dipingono come un uomo abituato al comando, dunque il rischio che possa entrare, prima o poi, in conflitto con Castelbarco e Montani non viene cancellato dalle buone intenzioni iniziali e conduce dritti dritti alla seconda questione: la famiglia originaria di Bobbio, ma genovese di adozione, si fermerà al 10,5%? Improbabile.

Se il budget messo a disposizione è di 100 milioni, spendendone 66 per la quota rilevata dalla Fondazione vuol dire che fin d’ora l’obiettivo minimo è fissato intorno al 15%. Ma l’aumento di capitale che sta dietro l’angolo, dopo che la Bce avrà deciso il piano di ripatrimonializzazione reso necessario dall’esito non positivo di tutti gli stress test (la banca ha pagato quello relativo allo scenario peggiore, il default dello Stato), potrebbe essere l’occasione per arrivare alla quota di controllo. Che, ragionevolmente, è esattamente il vero bersaglio di Vittorio Malacalza, nonostante la prudenza dei figli Davide e Mattia.

A dirlo è la vicenda che più di altre ha portato la famiglia sulle cronache finanziarie negli ultimi anni, l’alleanza con Marco Tronchetti Provera. Al subitaneo innamoramento e all’idea che con il patron della Pirelli si potesse costruire un grande progetto industriale è poi subentrato uno scontro terribile, quando Malacalza s’è reso conto che Tronchetti lo aveva chiamato a sé come “prestatore” di denaro. L’imprenditore genovese non se ne stette, tentò la scalata al colosso degli pneumatici, l’operazione non gli è riuscita e se n’è andato raddoppiando l’investimento iniziale. Si potrebbe anche ricordare la vicenda dell’acquisizione e rilancio della Ferrania – con un’altra storica famiglia genovese, quella dei Messina – per dire come a Vittorio Malacalza stiano stretti panni del socio di qualcuno.

E’ vero che una banca è qualcosa di diverso dagli ordinari cespiti industriali, ma certe dinamiche sono identiche. E dunque… Il gruppo la via d’uscita ce l’ha già disegnata nell’esborso che ha fatto e che farà: la banca vale molto   più di quanto oggi dica la sua capitalizzazione di Borsa, quindi se mai i Malacalza dovessero uscirne intascheranno certamente un’ottima plusvalenza. Ma al momento la strategia è quella di un investimento industrial-strutturale, non un’operazione finanziaria di carattere speculativo, quindi – ed è la terza questione aperta – bisognerà vedere come il nuovo principale azionista di Carige si comporterà di fronte ai movimenti che porteranno a un nuovo consolidamento dello scenario bancario italiano.

Parlando di aggregazioni, i Malacalza vorranno essere cacciatori o prede? Il primo è il ruolo che preferiscono, ma come si diceva le banche sono una proprietà particolare, che deve soggiacere a regole e a percorsi non sempre rispondenti alle logiche di chi per mestiere fa l’imprenditore. Qui il rischio di collisione è con un sistema che tuttora si muove secondo criteri fortemente dirigistici, teoricamente a tutela principalmente dei risparmiatori, nei fatti non sempre – almeno in passato – sordo al richiamo di spericolati e disinvolti pescecani (Popolare di Lodi-Antonveneta-Fiorani-Fazio, do you remember?). Che cosa accadrà, allora, se il sistema spingerà la Carige targata Malacalza verso un matrimonio che non piacesse al suo principale azionista?

Infine, ma non ultimo per rilevanza, c’è l’elemento localistico. Gli stessi Malacalza parlano di territorialità della banca, ma che cosa significa, oggi, questa parola? E, soprattutto, che cosa significa se a pronunciarla è l’imprenditore genovese? In generale la territorialità non ha più alcun valore, perché i buoni progetti e le buone aziende i finanziamenti possono trovarli presso qualunque istituto abbia anche un solo sportello aperto a Genova o in Liguria. Se, invece, con quella parolina si immagina una Carige ancora disponibile e pronta ad aprire i rubinetti per operazioni pilotate da gruppi di potere (vedi Erzelli, con 250 milioni incagliati) o per dare denaro ad amici, amici degli amici e imprenditori un po’ più uguali degli altri, beh di questa territorialità i genovesi e i liguri non sanno che farsene.

Malacalza non deve cadere in una simile tentazione, ma anche da questo punto di vista la sua storia personale qualcosa racconta. Se soprattutto nel recinto della politica, oggi ci fosse chi volesse ripetere la famosa frase “abbiamo una banca”, rischia di aver fatto male i propri conti. Per due motivi. Uno: da sempre i Malacalza privilegiano i progetti (Vittorio usa ripetere: “Se le idee sono buone, i soldi non sono mai un problema”), il “chi” nella loro visione riguarda solo l’affidabilità e la serietà delle persone. Due: il rapporto della famiglia con il mondo imprenditoriale genovese storicamente non è idilliaco, in particolare con una parte di quell’alta borghesia alla quale Vittorio avrebbe voluto dare uno scrollone se, anni fa, fosse riuscito a diventare presidente di Confindustria. A lui – sostenuto da Riccardo Garrone, altro personaggio amato e odiato sotto la Lanterna - venne preferito il giovane Giovanni Calvini. Molta acqua è passata sotto i ponti, ma non risulta che certe ruggini siano del tutto scrostate. Oggi, e fino a prova contraria, i soli che possano dire “abbiamo una banca” sono i Malacalza.