Un ragazzo di 25 anni non dovrebbe morire così. Matteo Franzoso, promessa dello sci italiano, è caduto durante un allenamento in Cile e non si è più rialzato. E no: non parliamo di fatalità, ma di un sistema che troppo spesso chiude gli occhi sulla sicurezza, soprattutto quando non ci sono telecamere.
Io "Franz" lo conoscevo dal 2021. La prima volta che l’ho intervistato come Primocanale era nel marzo del 2021 per una sua splendida vittoria di una tappa del campionato italiano, poi è nata un’amicizia vera. Era fatto così: generoso, mai banale. Per capire perfettamente chi fosse Matteo basti pensare che ogni volta che andavo a fare una gara del campionato italiano di velocità in una pista nuova, gli chiedevo dei semplici consigli. Bastava una risposta veloce, un accenno. Invece lui mi mandava numerosi video diversi di ogni settore della pista, con messaggi vocali di tre minuti per spiegarmi ogni dettaglio. Si prendeva il tempo, voleva che arrivassi preparato. Questo era Matteo: non teneva per sé l’esperienza, la regalava. Non rispondeva con una frase, ma con tutto quello che sapeva. Però bisogna smetterla di chiamarle tragedie.
Matteo Franzoso non è morto perché “lo sci è pericoloso”. È morto perché stava sciando su una pista che non avrebbe dovuto essere aperta in quelle condizioni: una misera fila di reti di protezioni, e a sei metri dalle reti c’erano barriere paravento in legno pesante. Una trappola, non un campo di allenamento, come se si potesse pensare che un atleta che viaggia a 120 km/h si possa fermare con un semplice strato di reti. Una follia. Eppure qualcuno ha dato l’ok, qualcuno ha deciso che bastava così.
Il punto è proprio questo: l’allenamento. Non era una discesa di Coppa del Mondo, ne l’Olimpiade che tanto sognava. Era allenamento: il momento in cui la sicurezza dovrebbe essere totale. Ma dove invece regolarmente si abbassa la guardia.
Non dimentichiamoci di Matilde Lorenzi, 19 anni, caduta in allenamento in Val Senales e morta dopo l’impatto col ghiaccio in Val Senales, anche lì in totale assenza di reti di protezione. Non dimentichiamoci di Marco Degli Uomini, 18 anni, friulano: apripista in un Super-G allo Zoncolan, volato per settanta metri fino a una recinzione metallica. Non dimentichiamoci di Margot Simond, 18 anni, promessa francese, morta in allenamento a Val D’Isere.
Quattro ragazzi, quattro destini, tutti nello stesso copione: allenamenti trasformati in roulette russe, piste allestite con superficialità, protezioni ridotte a scenografia.
Eppure, ogni volta, sentiamo la stessa parola: “tragedia”. No. Non sono tragedie, sono errori umani, responsabilità precise. Perché la verità è che in allenamento ci si “accontenta”: si usano piste di servizio, si fanno scendere atleti a velocità folli con due reti malmesse, si lascia legno, ferro, barriere a ridosso dei tracciati perché tanto “è solo un allenamento”.
Ma è proprio lì che si muore. È lì che non ci sono telecamere, che non ci sono regole FIS (Federazione Internazionale Sci) applicate con lo stesso rigore delle gare, che non c’è l’occhio del mondo. È lì che i ragazzi vengono lasciati soli in ambienti non a norma, in campi improvvisati, in scenari che avrebbero bisogno di dieci volte la cura che invece si vede in gara.
E non è solo questione di buon senso: ci sono regolamenti da rispettare. Le linee guida e i manuali FIS per l’omologazione e la sicurezza prevedono che, dove non sono installate reti A (reti fisse), si utilizzino più file di reti B (reti mobili) e fino a quattro o cinque file nei tratti critici come salti, curve cieche, compressioni, zone con ostacoli prossimi.
Lo ribadisce esplicitamente l’art. 702.3 delle FIS ICR: «Gli ostacoli contro i quali i concorrenti potrebbero essere proiettati uscendo dal tracciato devono essere protetti nel miglior modo possibile con reti di sicurezza alte, barriere, materassi o simili, insieme a scivoli di protezione».
Se — come documentato da immagini e testimonianze — a La Parva c’era una sola fila di rete B e subito dietro strutture rigide in legno, questo contraddice lo spirito e la lettera delle norme internazionali. Non “fatalità”, ma pista fuori standard. Non “tragica fatalità”: regole ignorate. E quando si ignorano le regole che esistono per salvare una vita, la domanda non è “quanto è sfortunato lo sport”, ma chi ha autorizzato, chi ha verificato, chi risponde. Perché se qualcosa non è a norma, non si apre, punto.
Qualcuno dirà che “lo sport comporta dei rischi”. Vero. Ma il rischio si governa, non si costruisce. Qui, troppo spesso, il rischio viene prodotto da chi “si arrangia” con due paletti e una rete, e chiude un occhio perché ribadisco, “tanto è solo allenamento”.
Matteo, Matilde, Marco, Margot: quattro nomi che gridano vendetta. Non vittime dello sport: vittime dell’incuria.
Fino a quando continueremo a chiamarle “tragedie” invece che vergogne, nulla cambierà. Il minimo, adesso, è pretendere indagini serie, responsabilità chiare, e un protocollo che renda gli allenamenti più sicuri delle gare: tracciatura certificata, protezioni adeguate per default, controlli indipendenti, stop a ostacoli rigidi a ridosso delle linee di fuga.
A nome di tutta la redazione di Primocanale ci stringiamo al cordoglio della famiglia. Caro Matte, sentiti libero di sciare sulle piste più bianche che ci siano.
Matteo Franzoso è... supergigante, vittoria della tappa del circuito Gran Prix a Santa Caterina
Sci, il genovese Franzoso vince Super-G di Coppa Europa - Clicca qui
Sci Alpino: in seggiovia con il genovese Matteo Franzoso - Leggi qui