Il tema delle Foibe e più complessivamente quello dell'esodo giuliano-dalmata (gli storici chiamano così quello che nella mia famiglia definivamo semplicemente 'istriano') è stato così maltrattato dalla politica nazionale che da italiano provo un certo senso di vergogna.
Sento la questione con particolare trasporto, è inevitabile visto che nonna era di Pola e nonno di Rovigno, e sono sconsolato nel constatare che ancora oggi, a quasi ottant'anni dal principio di quei fatti, il mio Paese seguiti a considerare l'Esodo una questione politica, da esaltare se si sta a destra e denigrare da sinistra. E' il segno di un analfabetismo storico, intellettuale e morale che mostra l'Italia nella sua luce peggiore.
Non ho titoli, né questa è la sede, per impartire lezioni di storia, ma poiché nelle mie vene scorre il sangue che fu versato su quelle pietre sento il dovere di ribellarmi all'ignoranza e al pressapochismo.
Gli italiani che vivevano nell'Istria non erano violenti coloni al servizio del fascio: la loro presenza in quell'area ha radici ben più antiche e si ricollega alla storia romana prima, carolingia poi, fino a quella della Repubblica di Venezia e poi del Regno d'Italia. La mia famiglia si trovava li da generazioni e il bisnonno, tanto per mettere le cose nella giusta prospettiva, aveva combattuto la Grande Guerra nell'esercito Imperial-regio di Francesco Giuseppe d'Asburgo. Contro quello italiano.
Nessuno dei miei familiari polesani e rovignesi si è mai dichiarato fascista: si limitavano a vivere con semplicità nella terra dei loro avi, un luogo che amavano e rispettavano, e si consideravano italiani, poiché ne parlavano la lingua e ne condividevano la cultura.
Il fascismo non fu una scelta degli istriani ma fu una svolta politica e istituzionale che si consumò in Italia e fu realizzato e condotto da italiani. E, lo ripeto a beneficio dei distratti, entrò nel quadro della politica europea con secoli di ritardo rispetto all'insediamento di italofoni (giacché di italiani, nel senso giuridico del termine, è corretto parlare solo dal 1861 in poi) in Istria e Dalmazia.
Ritenere che la loro presenza fosse un lascito del fascismo è un pensiero ignorante, così come profondamente stupido è pensare che il genocidio a cui furono sottoposti fosse una normale reazione politica a uno stato di guerra. Ma è proprio questo indegno punto di vista ad aver trasformato i morti nelle foibe in colpevoli di indebita occupazione di una terra straniera.
Vi è poi una mistificazione ancora più volgare, quella che mette le tragedie del 'secolo breve' in un unico grande tavolo e le seleziona sulla base del numero dei morti che hanno prodotto o per la carta d'identità delle vittime. Fare paragoni stupidi tra le Foibe e la Shoah, come se le due questioni fossero sovrapponibili o persino collegate, è indegno di persone civili: ogni storia è diversa e unica, e come tale va trattata. Ritenere che indifesi cittadini italiani dovessero morire gettati nei crepacci perché negli anni precedenti i nazi fascisti avevano sterminato ebrei e nemici politici nei lager è insensato: sono state terribili entrambe le cose e con entrambe, senza fare beceri confronti, bisogna fare i conti.
Politicizzare la morte e il ricordo della morte è un esercizio squallido contro il quale grido tutto il mio sdegno: gli istriani massacrati non erano i repubblichini di Salò contro cui si combatteva una guerra civile ma donne e uomini innocenti, civili ritrovatisi un bel mattino in uno Stato straniero. Furono abbandonati da tutti, anche dai loro connazionali che avrebbero dovuto cercare di proteggerli.
Non sono e non devono essere un feticcio post fascista, non c'entrano niente con le battaglie politiche: erano persone come noi, che vivevano le loro vite, andavano al lavoro, crescevano i figli.
Oggi il Consiglio regionale della Liguria, in occasione del giorno del Ricordo che si celebra sabato, dedica a questi fatti una seduta solenne: mi auguro che tutto il Paese voglia iniziare davvero, una volta per tutte, un percorso di autocoscienza che lo porti a comprendere la portata di quei fatti.
Ci sorrideva il sole, il cielo, il mar (il cielo, il mar)
Noi lasciavamo il cantiere
Lieti del nostro lavoro
E il campanon, din don, ci faceva il coro
Diglielo tu
Che tornerò
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