cronaca

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 Se ne è andato in questi giorni bui anche Pietro Gambolato, una delle rocce del sistema politico della sinistra che per decenni ha governato Genova. Avrebbe dovuto compiere 90 anni questo ex operaio di Rivarolo, uomo di partito , dello storico Pci, poi Pds, poi dei Ds, poi Pd, uomo delle Istituzioni, in consiglio comunale, vice sindaco di anni chiave a Genova e deputato della Repubblica.
C’era sempre Gambolato, anche negli ultimi anni, quando tutto a Sinistra era diventato più difficile. Lo ricordo entrare con passo deciso e sguardo severo in quell’assemblea di dissidenti che si era riunita dopo la storica sconfitta alle elezioni regionali del 2015, quando Toti conquistò la Liguria e la sua parte non aveva neppure incominciato un vero esame del tracollo.


Era sempre stato in prima fila, sopratutto negli anni in cui Genova era governata dalla sua sinistra
, dal suo Pci e da Fulvio Cerofolini, sindaco socialista lombardiano, che con lui si intendeva in modi decisi e chiari. Il suo partito lo aveva riportato in città dalla Camera, dove era stato anche vice presidente di una importante Commissione, per rinforzare la squadra in un momento cruciale.
E Pietro Gambolato era tornato nel suo consiglio comunale, in un ruolo chiave dentro al suo partito per quelli che erano gli anni decisivi nei quali un modello nuovo di governo della città andava giocato.
Il Pci doveva dimostrare che sapeva governare, dialogando con tutte le parti in campo: non era più il tempo del muro a muro, delle contrapposizioni ideologiche forti.

Ci voleva il dialogo e quell’uomo un po’ burbero nei toni, ma chiaro negli atteggiamenti, era quello che ci voleva per equilibrare il partito e per garantire il dialogo nella città anche con i “compagni” del Psi di Delio Meoli e con gli oppositori della Dc di Giovanni Bonelli.
Quando lo incontrai in uno dei più riservati salotti della città, tra imprenditori, nobili famiglie, grandi professionisti, capii, da giovane cronista, che c’era stata una svolta importante nei rapporti e che una nuova era incominciava.
Si studiava la città policentrica, si facevano emergere le novità di un governo cittadino che non doveva più spaventare la borghesia e le classi imprenditoriali. E quella roccia di Gambolato garantiva più di altri.
Forse perché era più riservato, un po’ più chiuso delle nuove leve dei ragazzi e delle ragazze in prima linea, Roberto Speciale, il segretario provinciale e regionale che sarebbe decollato per l’Europa, il Claudio Burlando agli albori del suo successo politico e di immagine, la Marta Vincenzi proiettata nella sua carriera, il Graziano Mazzarello dei ruoli nel partito, poi in Regione, poi in Parlamento.

Era più giovane dei Bisso, dei Bruschi, di quella grande testa fina di Raimondo Ricci, ma faceva un po’ da ponte tra la vecchia generazione, cresciuta in una opposizione ferrea a Roma e a Genova e quella nuova, di governo in città dopo i tempi eroici di Gelasio Adamoli.
Non amava la ribalta, era difficile intervistarlo, non perché schivasse, ma perché non era nel suo dna. Ma c’era sempre e anche più avanti negli anni, nelle amministrazioni, nei cicli, nelle tempeste dure come quella del terrorismo o delle grandi crisi anni Ottanta del sistema industriale, Gambolato era sempre lì. Si era così conquistato una fama di “suggeritore”, di gran consigliere dietro le quinte, di eminenza grigia, che magari non corrispondeva pienamente alla verità, ma che lo accompagnato fino in fondo.

Fino a quando tutto è cambiato e la sua figura è rimasto sullo sfondo. Ma credo che uomini come Mario Margini, oggi presidente della Fondazione Pci o Mario Tullo, ex deputato sempre in campo, un consiglio a Pietro Gambolato lo chiedessero quando era necessario, non fosse altro per capire la realtà e gli uomini.