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Il 'Fresco Institute' elegge Genova per la ricerca sul parkinson
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Parte da Genova il progetto di Paolo Fresco, milanese di nascita e genovese di formazione, ex manager della Fiat e grande sostenitore di Matteo Renzi. Con una donazione di 25 milioni di dollari ha dato vita al Fresco Institute Italia, gemello del suo omologo a New York, per finanziare la ricerca sul morbo di Parkinson e fare del suo Paese un centro di eccellenza mondiale nel settore. Al Porto Antico è andato in scena 'Parkinson's outcomes project', primo meeting operativo sulla malattia e sui disordini del movimento. Una città chiamata a grandi sfide, nella sanità e non solo, come ha raccontato nell'intervista al direttore Giuseppe Sciortino. 

Paolo Fresco, lei si sente milanese, genovese o americano?
Io sono sempre uno straniero, dovunque vada. Quando vivevo a Milano, siccome venivo da Roma, mi dicevano o romano o genovese. Poi sono andato negli Stati Uniti, dove ero italiano, mentre qui ovviamente sono l’americano. Diciamo che sono un uomo del mondo.

La sua formazione però avviene a Genova, al Liceo D’Oria, con Paolo Villaggio. Lei li ricorda tutti i nomi dei suoi compagni di classe?
Banchieri, Bonomonte, Cardillo, Fordi, Fresco, Iacopino, Migliardi, Molinari… più che i nomi ricordo l’elenco dell’appello. Mi ricordo anche che l’ultimo si chiamava Lo Iodice, che è un caro amico. Era l’ultimo perché era arrivato dopo. Dopo Zanoni e Zapparoli arrivava lui.

Al Porto Antico si tiene un incontro organizzato dal Fresco Institute Italia che è gemello del Fresco Institute New York. In questi anni oltre 25 milioni di dollari donati da Paolo Fresco e dalla sua fondazione contro il Parkinson.
Un problema che sta diventando sempre più serio perché la malattia sta diventando sempre più diffusa. Una ragione è l’invecchiamento della popolazione. L’altra è che adesso si capisce meglio la natura delle malattie della vecchiaia. Il Parkinson e altri disturbi del movimento sono un ceppo neurologico molto importante ma molto specifico. La mia determinazione è cercare di affrontarlo perché bisogna essere molto specialistici per incidere sul progresso.

Lei ha messo Genova tra le eccellenze italiane e non solo.
Sicuramente ha elementi di eccellenza. Questi centri che abbiamo creato sono candidati a diventare d’eccellenza, ma in realtà sono i posti in cui c’è maggior competenza specifica. Qui c’è il professor Giovanni Abruzzese che è il decano della ricerca sul Parkinson in Italia. Poi è un centro accademico, di ricerca pura, e anche di cura.

Genova è una città eccellente secondo lei?

Ha tutto il potenziale per esserlo. Intanto ha i genovesi, una categoria di gente molto capace, con un senso del business molto forte. È un po’ sacrificata dalla posizione geografica. E anche il nostro carattere è più schivo. Poi è bella, e anche questo conta.

E allora cosa le manca? I collegamenti, una nuova fase industriale? La città ha pagato dazi importantissimi per la deindustrializzazione.
Secondo me ogni località deve sfruttare i punti di forza che ha e cercare di concorrere su quei punti. Io ora vivo a Firenze, per me il suo punto di forza è che è la culla del Rinascimento e la base di una cultura che è diventata quella di tutto il mondo occidentale: è quello che va sfruttato. Questa è una città che si è sempre dedicata con grande successo al commercio e questo è indubbiamente una base da sviluppare. La Liguria è un posto benedetto da Dio dal punto di vista della natura: cerchiamo di sfruttare di più il turismo. Forse una maggior predisposizione a pensare a quanto sia importante il servizio al turista sarebbe utile. Una maggiore apertura, ma mantenendo le nostre caratteristiche.

A giugno ci saranno le elezioni a Genova, indicati da tutte le forze politiche come una culla per sperimentare nuove alleanze e sistemi che possano essere traguardati poi alle elezioni politiche. Una grande città come Genova ha bisogno più di un manager, un politico o una figura che riassuma entrambe le professioni?
Sicuramente uno che sia in grado di coniugare in maniera intelligente la capacità manageriale e la sensibilità politica. Uno può essere un grande manager senza capire nulla di politica. Viviamo in un mondo gestito giustamente con una grossa influenza della politica. Ma bisogna che ci mettiamo in testa che la politica è una cosa nobile e seria, il che non vuol dire che lo siano i politicanti. Dobbiamo cominciare a rispettare molto la politica, riconoscere che è un mestiere difficile e che, se prescinde dalle considerazioni economiche, fallisce. Ci vogliono entrambe le cose.

Da subito è stato uno dei principali estimatori di Matteo Renzi e ha sostenuto la fondazione Big Ben. Quale sarà il suo futuro? Passa anche dalla vittoria o sconfitta a Genova? 
Non credo. Renzi è molto giovane, dal punto di vista di un 83enne, e ha ancora tantissima strada davanti. Non deve farsi bruciare dalla fretta e deve continuare a essere se stesso: l’uomo che ha parlato di rottamazione e ha propugnato una rivoluzione intellettuale nel modo di concepire la politica e il futuro di questo Paese.

Qual è l’obiettivo del Paolo Fresco Institute, partendo dall’eccellenza di Genova? 
Ci sono sempre storie private dietro iniziative pro bono, è inevitabile. Mia moglie si è ammalata circa dieci anni fa di Parkinson e ho preso un interesse particolare alla malattia per ragioni personali. Ho trovato amici tra i neurologi della New York University e ho stabilito un vincolo quasi di sangue con loro. Il capo della parte clinica sul Parkinson era un genovese, Alex Di Rocco, che in questi giorni è qui. Il mio obiettivo sarebbe coniugare la capacità intellettuale, il genio italiano allo stesso livello della creatività italiana, soprattutto nel campo neurologico, con la capacità organizzativa del mondo anglosassone. Se mettiamo insieme i due, possiamo creare una potenza mondiale. La modalità della mia donazione è destinare una maggioranza di questi 25 milioni a lavoro in Italia o fatto da italiani.

È un modo per restituire quanto ha ottenuto nel corso della sua carriera? 
Sì, io credo molto al concetto del give back: restituire alla società, alla comunità, quello che uno ha ottenuto nella prossima vita. Il fatto di essere cresciuto qua mi rende debitore nei confronti di questo Paese. Ma i soldi li ho fatti tutti in America. Nel dare alla comunità qualcosa che hai accumulato per talento o circostanza, credo debba avere la priorità la comunità che ha contribuito al tuo successo: per me l’Italia e gli Stati Uniti. È un concetto molto sentito nel mondo anglosassone, meno in Italia e in generale nel’Europa continentale. Forse perché ci sono stati tanti stranieri, o perché i Governi hanno voluto fare troppo. In realtà è un fatto culturale, non ci si sente in obbligo morale. Io vorrei far propaganda per questo.