Il cinema dei fratelli Josh e Bennie Safdie ha sempre puntato a rappresentare la realtà con un approccio quasi documentaristico attraverso personaggi marginali e complessi, perennemente in fuga o in lotta con se stessi. E' quello che ritroviamo anche in The smashing machine, primo film da solista di Benny, presentato alla Mostra di Venezia dove ha vinto il Leone d'argento per la migliore regia: un anti-biopic che non si piega ai soliti cliché dei film sportivi nonostante racconti la storia vera di Mark Kerr che si è fatto un nome come pioniere delle arti marziali miste (MMA), la cui ascesa ha contribuito a far conoscere questo sport al grande pubblico, interpretato da Dwayne Johnson a sua volta ex-star del wrestling riciclatosi interprete di spettacolari film d'azione, vedi la serie Fast and furious.
La trama
Nello specifico, il film si concentra sulla sua carriera dal 1997 al 2000, un periodo che lo ha visto combattere contro la dipendenza dagli antidolorifici, le difficoltà legate alla sua professione e le ferite fisiche accumulate negli incontri. Una situazione che mette a dura prova la relazione con la compagna Dawn (Emily Blunt), ricca di alti e bassi. Dopo un periodo di allenamento intenso con il proprio coach, Mark cerca di tornare in forma e riconciliarsi con lei ma la relazione si deteriora nuovamente per le sue abitudini autodistruttive. E sullo sfondo c'è il torneo Pride in Giappone, evento epocale che riunisce sullo stesso palco i migliori lottatori del mondo.
Il ritratto di un uomo che ha fatto del proprio corpo un'arma
The Smashing Machine non è un film sportivo ma un ritratto ambiguo e doloroso di un uomo che ha fatto del proprio corpo un’arma e della propria vulnerabilità un segreto ingestibile. Una tragedia, una storia di redenzione e un’esplorazione su cosa significhi essere umani quando la propria identità è legata alla forza, una parabola sull'imparare ad accettare la sconfitta senza che questa porti necessariamente all'autodistruzione. In un’epoca in cui i biopic sportivi si costruiscono come rituali di redenzione, Safdie sceglie un’altra strada: un’indagine lenta, quasi antropologica, su come un corpo possa diventare simbolo, mercato, corazza e prigione allo stesso tempo. E lo filma con una curiosità che sembra nascere meno dai combattimenti e più dai silenzi che li precedono e li seguono.
Tra potenza fisica e fragilità emotiva
Il protagonista appare come un uomo che vive nella distanza ancora prima che nel dolore: distanza tra ciò che è e ciò che ci si aspetta che sia, tra la potenza fisica e la fragilità emotiva, tra l’azione violenta e la rassegnazione che la precede. E ogni scena costruisce un’attesa che poi non viene risolta, come se il regista volesse ricordarci che la vita — soprattutto quella di chi consuma il proprio corpo come mestiere — raramente offre soluzioni nette. E' un film sui corridoi che si nascondono dietro gli eventi, sulle mani che tremano quando non stringono un guantone, sui medici che non giudicano perché la rassegnazione è già un giudizio.
Un film che sussurra
In un panorama cinematografico dominato da narrazioni rumorose, The Smashing Machine è un film che sussurra. Non sempre con coerenza, non sempre con pienezza, ma con un’attenzione quasi chirurgica per il modo in cui un uomo si perde mentre continua a essere guardato. È un’opera imperfetta, forse deliberatamente imperfetta, che sembra suggerire che la verità più interessante non sta mai nell’evento ma nella sua attesa. E che la forza, quando la si osserva da vicino, assomiglia moltissimo alla fragilità.