Jafar Panahi è un regista e attivista iraniano che nel suo paese continua ad essere arrestato e liberato, a subire divieti di produzione cinematografica e a sfidare la legge, trovando scappatoie attraverso cui i suoi film possono essere realizzati e proiettati all'estero. E le autorità, ipocritamente consapevoli del prestigio che gode nella comunità internazionale, sembrano (quasi) tollerarlo. Dopo essere stato ancora una volta rilasciato dal carcere nel 2023 su cauzione dopo aver intrapreso uno sciopero della fame ha girato Un semplice incidente, un film sulla violenza di Stato, la vendetta e il dolore della tirannia che coesiste con l'apparente normalità quotidiana, con il quale nel maggio scorso ha vinto la Palma d’Oro al Festival di Cannes.
La trama
Politicamente ricco e oscuramente divertente, il film inizia con un padre di famiglia, Eghbal, che sta viaggiando in auto con la moglie e la figlia piccola quando investe un cane randagio che danneggia l'auto. Raggiunta l'officina più vicina, la sua voce e il cigolio della protesi di legno che ha al posto di una gamba vengono riconosciuti da Vahid, un abitante del posto, come quelli di un agente dei servizi segreti che era stato il suo torturatore durante la prigionia politica, un'esperienza che gli ha lasciato cicatrici psicologiche e fisiche indelebili. Così decide di rapirlo per vendicarsi anche se Eghbal insiste di non essere l'uomo che sta cercando. E dal momento che i prigionieri erano tutti bendati quando venivano torturati, Vahid – preso dal dubbio - decide di cercare altri compagni di sventura che hanno subito gli abusi di quell'agente, per confermare la sua identità. Alla fine formano un gruppo di sei persone che litigano alla ricerca di una verità che diventa sempre più confusa e complicata.
Il regista iraniano Jafar Panahi con la Palma d'oro vinta a CannesUn racconto di comicità nera sul perdono
Un semplice incidente è un film sull'oppressione militare e le cicatrici di un regime che non svaniscono mai ma scritto in modo così leggero e liberatorio che non diventa mai denso di motivi politici senza peraltro dimenticare l'ombra di crudeltà in cui vive ancora l’Iran. Panahi ha trasformato una storia ambientata in uno dei governi più autoritari al mondo in un racconto di comicità nera sul perdono intrecciando elementi tipici dei film di vendetta ma abbattendone il codice morale. Affronta i temi della colpa e della responsabilità, sollevando allo stesso tempo inquietanti interrogativi etici: fino a che punto dovrebbero spingersi coloro che sono stati torturati in prigione per vendicarsi? Se è giustizia che cercano, come apparirebbe ad occhi neutrali?
In scena uno specchio della società moderna
E anche i momenti leggeri che pure non mancano non sminuiscono mai la portata di ciò che Panahi esplora, quello che in definitiva è il periodo più oscuro e spaventoso di tutte le loro vite. La domanda se Eghbal sia davvero chi credono sia è al centro di tutto ma possono fidarsi dei propri ricordi? Se è lui il loro torturatore, vendicarsi li porterà a una conclusione o li renderà più simili a lui? Se non lo è, stanno rischiando la propria anima per niente? Ancora una volta il regista iraniano mette in scena uno specchio della società moderna e ci chiede di indagare su come ci trattiamo a vicenda, quale impatto hanno le nostre scelte collettive e come dovremmo vivere insieme sulla scia di tutto ciò.
La gentilezza a poco a poco sostituisce la vendetta
E quello che alla fine rende più intrigante Un semplice incidente è come gli atti di gentilezza a poco a poco inizino a sostituire la ricerca di vendetta. La rabbia e il dolore non si dissipano mai ma la vera natura di queste persone così diverse inizia a riaffermarsi dopo l'iniziale vampata di potente emozione. Così, mentre Panahi è risoluto nel criticare i funzionari brutali le cui azioni scatenano ancora più violenza, si sofferma abilmente su come tutti noi aneliamo a una vita migliore. E su quanto sia difficile trovarne una in un mondo come questo.
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