Il giro della cocaina non chiude mai: come una catena di fast food aperta 24 ore su 24, così l’organizzazione smantellata dalla polizia locale funzionava con turni rigidi, rider in auto o taxi per le consegne a domicilio, un "capo turno" che controllava la qualità e persino "cavie" per testare il prodotto. I pusher si alternavano con precisione per garantire la distribuzione della droga senza interruzioni, così da soddisfare qualsiasi richiesta in qualsiasi momento del giorno e della notte.
Il sodalizio criminale gestito come un'azienda
L’ordinanza di custodia cautelare firmata dalla gip Nicoletta Guerrero su richiesta delle pm Francesca Rombolà e Monica Abbatecola descrive un sodalizio di 21 persone - 18 di nazionalità senegalese, uno di nazionalità francese, uno di nazionalità gabonese - a cui è stato contestato, a vario titolo, il reato di associazione a delinquere finalizzata allo spaccio. L’attività illecita era gestito come un’azienda vera e propria. Il gruppo operava su turni prestabiliti che coprivano l’intera giornata: mattina, pomeriggio, sera, notte. Ogni pusher aveva un orario preciso, come un cassiere dietro il bancone. Un autista dedicato, con diverse auto, fungeva da rider per le consegne rapide in tutta la città, dal ponente al levante, esclusa solo via Pre' "territorio di altri".
La gestione dei guadagni e dei clienti
L’interno del sodalizio era regolato da ruoli precisi e da una rigida disciplina: chi guidava, chi preparava le dosi, chi curava i rapporti con fornitori o clienti. Le conversazioni intercettate mostrano una gerarchia attenta e una gestione quasi aziendale, con procedure di sicurezza allo scopo di evitare controlli di polizia.
Un telefono con la rubrica clienti passava di mano in mano tra i turnisti, come un registro ordini condiviso tra i dipendenti per non perdere nemmeno un contatto. Le intercettazioni parlano chiaro: “Mi servono venti perle"; in un’altra: " ".
Le "cavie" il giro d'affari
La cocaina, soprattutto crack, era il "prodotto standard": dosi da 15-20 euro, a prezzo di mercato. Singolare un altro dettaglio emerso dagli atti: l’organizzazione impiegava alcuni tossicodipendenti come “cavie”, ossia soggetti incaricati di provare la merce prima che venisse immessa sul mercato. In particolare donne tossicodipendenti che non avevano soldi e, in alternativa, pagavano con prestazioni sessuali. Così il test assicurava affidabilità e qualità della droga, riducendo il rischio di lamentale da parte della clientela e rialzando così la reputazione dello spaccio. Centinaia e centinaia di cessioni documentate in piazze, vie del centro e a domicilio, con un giro d’affari di migliaia di euro a settimana.