
Perché abbiamo perso tanto tempo a non decidere quale era il destino di Cornigliano? Dopo il 2005 dell’Accordo di Programma con l’industriale Riva, che metteva un punto nella questione della convivenza tra la fabbrica e il quartiere e Genova, il tempo è trascorso invano senza che si vedesse altro che lo strascico di una convivenza ineluttabile e pericolosa. Eppure quell’area immensa, l’Eldorado di Genova, come lo avevano battezzato nel Dopoguerra per quelle industrie in faccia ai moli, aperte al mare, che avevano fatto stringere a Angelo Costa e Giuseppe Di Vittorio, rispettivamente i miti dell’industria postbellica e del sindacato post dittatura, un patto per l’autonomia funzionale di quelle banchine, meritava che i genovesi di una, due, tre generazioni, decidessero qual era il destino migliore. Oltre a quello industriale in caduta.
E invece oggi, che è già passato un quarto del primo secolo dell’anno Duemila, siamo qua davanti al dilemma lacerante: lo vogliamo o no il forno elettrico, un tema che riguarda tutti mica solo quelli che abitano in via Cornigliano, in via Dufour, in via Operai, all’ex mercato del pesce, dove la mia generazione ha consumato la suola delle scarpe per raccontare il drammatico confronto tra operai e popolo, tra le tute blu e le mamme, affacciate ai balconi annerite dal fumo del “mostro a caldo”, chiusi anche d’estate, con le lenzuola nere di fumo a stendere.
Riguarda questo tema la città di Genova, sospesa oggi tra i suoi diversi destini, più che mai oggi che l’industria punto 3 o punto 4 è così diversa da quella di quegli anni brucianti del conflitto frontale tra il lavoro e l’ambiente.
Abbiamo perso troppo tempo a aspettare, mentre la grande fabbrica piano piano si spegneva, la occupazione scendeva, la cassa integrazione saliva, lo spazio immenso di quella fabbrica si sprecava, dopo le demolizioni dei primi anni 2000, le cokerie smontate pezzo per pezzo, l’altoforno spento, in una cerimonia che era un po’ una festa un po’ una sepoltura.
Ci avevano provato a disegnare un futuro diverso per Cornigliano, quando l’allora presidente della Regione, Sandro Biasotti, aveva convocato a sorpresa quasi tutte le categorie sociali, le cooperative, i soggetti esterni a Genova a investire eventualmente in quegli spazi “dorati”.
Respinto con perdite. La famiglia Riva teneva in pugno il Governo e gli industriali, Confindustria. Si viaggiava verso quell’accordo del 2005, che figure indimenticabili come Leila Maiocco, leader delle donne di Cornigliano con Patrizia Avagnina e Franco Sartori, sindacalista CGIL, aperto e geniale, avevano accompagnato negli anni con rinunce, sofferenze e anche orgoglio.
E poi? Sono passati i decenni e noi qui a interrogarci se Genova poteva restare ancora una città industriale, mentre il mondo cambiava, il porto intorno cambiava, Genova cambiava fino ai tappeti rossi stesi da Giovanni Toti per rendere più evidente il trionfo del turismo, fino all’overtourism.
Cosa era Cornigliano allora, quello spazio immenso, con gli operai che erano stai decine di migliaia, ridotti a qualche centinaio, il deposito di container, che Spinelli astutamente otteneva?
Cos’era, mentre IIT la posteggiavano a Morego, in fondo alla Valpolcevera e Erzelli, con l’industria punto 2 o 3 e in prospettiva 4, cresceva in difficoltà, spinta solo da Carlo Castellano, con Ingegneria recalcitrante e gli altri imprenditori, che si voltavano dall’altra parte?
Cornigliano era un problema irrisolvibile, quando la crisi di Taranto era esplosa drammaticamente, esponenzialmente e ancora dura nelle sue incertezze. Quanti pubblici amministratori, politici, presidenti di Regione, sindaci, si sono arresi davanti a quella immensa landa industriale e post industriale dove aveva trovato spazio perfino giustamente Film Commision?
Cornigliano era, insomma ed è ancora, lo spazio perduto di Genova. Sarebbe ingeneroso fare l’elenco, mentre una politica industriale italiana teneva accantonato anche quel problema.
Il forno elettrico, annunciato con un gesto plateale dal ministro Urso, calato a Genova in un piano ancora tutto da vedere e con tanti dubbi, è proprio come una scossa elettrica _ passi la ripetizione_ e mette tutti davanti alle proprie responsabilità.
E’ giusto chiedere a tutti i cittadini cosa ne pesano, come fa Primocanale con il suo sondaggio. E’ giusto che ci sia la massima trasparenza, come chiede la sindaca Salis, nel descrivere un progetto colossale.
E’ giusto chiedere protezione per l’ambiente e difesa per l’occupazione, in un quadro che ci dica, però, cosa vogliamo fare di quel pezzo di città, che, comunque, si apre ad altre prospettive. E questo è, speriamo, comunque un dato di speranza.
Ma perché abbiamo perso tanto tempo?
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IL COMMENTO
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