La situazione che stiamo vivendo è del tutto nuova per il dopoguerra, forse lontanamente paragonabile solo a quella vissuta dai nostri nonni e bisnonni nel pieno di una guerra subita senza entusiasmo. Di molto diverso, nella nostra epoca, c’è la presenza ossessiva dei mezzi di comunicazione più o meno vecchi (come la televisione o i giornali) e nuovi (i social media), che rendono l’esperienza più immersiva e forse la distorcono, anche per chi dal virus non è toccato da vicino.
Il cuore e il sistema circolatorio, così legati alla nostra parte emotiva, ne sono intensamente sollecitati, creando nel cardiologo estrema preoccupazione. E’ noto, nella letteratura medica, che i ricoveri d’urgenza (e la mortalità in generale) per la causa più frequente di morte nel mondo occidentale (le malattie cardiovascolari uccidono ogni anno, ad esempio, oltre 230.00 persone all’anno in Italia) aumentano in situazioni di forte pressione personale e sociale. Nel corso della prima ondata COVID-19 di Marzo-Maggio, tuttavia, i ricoveri di urgenza-emergenza per malattie cardiovascolari si sono ridotti di circa il 40-50% nel nostro Paese, purtroppo con un parallelo aumento della mortalità extraospedaliera e creando, successivamente alla fase più acuta dell’epidemia, un ritorno in Ospedale di pazienti più gravi perché non trattati tempestivamente.
Le ragioni che hanno portato a questo paradosso sono state ampiamente dibattute nella letteratura medica e ne riassumo alcune: 1) percezione di vulnerabilità del paziente se ricoverato in Ospedale alla infezione da SARS-CoV2 2) prioritizzazione di risorse e spazi per COVID-19 c) aumentata pressione sui sistemi dell’emergenza (esempio, 112) d) chiusura di servizi ambulatoriali/day hospital cardiovascolari e) blocco-rallentamento di procedure cardiovascolari “elettive” ma eseguite su pazienti ad alto rischio, come TAVI, Mitraclip, ablazioni, angioplastica coronarica, sostituzioni di pacemaker, estrazione pacemaker infetti, bypass aortocoronarici e chirurgia valvolare, chirurgia/riparazione endovascolare di aneurismi aortici.
La seconda ondata COVID-19, la cui portata verosimilmente non abbiamo ancora assorbito del tutto, ci pone di nuovo di fronte a questi dilemmi, sperabilmente con una cognizione più ampia e meno emotiva di cosa ci attende nei prossimi mesi. Al Cardiologo interessa soprattutto che questa volta l’emotività non abbia la meglio sulla razionalità. Chiusure lineari di tutti i servizi cardiovascolari, come nella prima ondata, non sono più accettabili. Non è possibile sguarnire reparti e convertire tout court terapie intensive cardiovascolari, pena un massiccio aumento dei morti che rischia far impallidire i numeri dell’emergenza COVID-19.
Come peraltro già sottolineato dalla Società Italiana di Cardiologia (https://www.ansa.it/canale_saluteebenessere/notizie/sanita/2020/10/29/cardiologi-con-reparti-chiusi-per-covid-rischio-piu-morti_7ff28169-9f27-4bca-8aa3-5000cfc953b0.html), una sanità bloccata dal virus rischia di annullare i progressi ottenuti in tutti il campo cardiovascolare e di far ritornare le malattie cardiovascolari ai risultati di 20 anni fa.
Il Dipartimento CardioToracoVascolare del Policlinico San Martino, di cui fa parte la Clinica della Malattie Cardiovascolari di cui sono Direttore e che effettua alti numeri di tutte le procedure ad alto impatto di cui ho parlato sopra, ha da tempo, in collaborazione con la Direzione dell’Ospedale, implementato protocolli di sicurezza e per “filtrare” i ricoveri, anche in emergenza, in spazi attrezzati e per eseguire tutto con la massima possibile riduzione del rischio infettivo.
La preghiera è soprattutto al pubblico, che continui a fidarsi del San Martino e degli specialisti cardiovascolari in generale, e ai decisori, che continuino ad avere nei nostro confronti il riguardo e l’attenzione che i medici e le strutture che curano la prima causa di morte nel mondo meritano.
Italo Porto* - direttore della UOC di Cardiologia del San Martino.
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