sport

Le sensazioni e le emozioni di una partita giocata in uno scenario spettrale sotto l'ombra del Coronavirus
4 minuti e 24 secondi di lettura
 Che strano cominciare un collegamento in diretta recitando, così, senza preavviso: «Visioni e frasi spezzettate si affacciano di nuovo alla mia mente, l'inverno e il freddo le han portate, o son cattivi sogni solamente».
Il tutto improvvisando, senza averci pensato prima, soltanto prendendo spunto dal vuoto, dal biancore della scuola dove c'era la Bocciardo, dal sole abbagliante e freddo, dal niente che era tutto, dalla paura della paura, alle due del pomeriggio davanti allo stadio, in attesa di una partita che chissà se si giocherà. Sampdoria-Verona è una lezione di nulla, un allenamento all’assenza. Una tomografia assiale computerizzata del cuore, un viaggio al termine del calcio.


La luce delle giornate terse d’inverno leviga i contorni delle cose, le rende irreali come quinte di cinematografo, quei finti villaggi del West dietro i quali gli elettricisti mangiavano pane e porchetta. La piastra del Bisagno è deserta, il piazzale della Sud è spoglio, soltanto un’ambulanza e giornalisti e fotografi, sperduti come Armstrong nello scafandro sul Mare della Tranquillità, che poi non era un mare ma una pietraia polverulenta e sterile.
Alla fin fine, non abbiamo poi tanta voglia di entrare allo stadio, per non misurarci con il buio. Invece entriamo, dopo che un’infermiera con la mascherina ci ha poggiato sul collo e sulla guancia una specie di piccolo asciugacapelli che invece era uno scanner termico,
Ed eccoci affacciati sul verde del prato, sul blu degli spalti, sul rosso del cemento. Siamo un centinaio, giocatori compresi. E’ un pomeriggio dissonante, indizi di normalità si alternano a scaglie di sgomento: gli altoparlanti diffondono un rassicurante reggaeton, così come prima dell’ingresso delle squadre “Lettera da Amsterdam” che diventa una lettera a nessuno. Ma la lettura delle formazioni, nella compunta misura tonale dell’annunciatore, diventa qualcosa di molto simile alle litanie lauretane, verrebbe da interpolare un “Ora pro nobis” tra i nomi di Vieira e Jankto.
Valeri chiede ai giocatori “Datemi una mano” e poi segnala al quarto uomo che c’è una maglia rotta nella rete della porta nord. Quindi si comincia, tra gli urlacci “Uomo” “Solo” “Aiuta” “Vai”, repertorio amatoriale finalmente denudato, quasi fosse una partita sui campetti a cinque di corso Italia. A gridare più di tutti sono i due portieri, oltre al gutturale Juric, anche se l’azione sta nell’area opposta fanno come i capocoro. Un paio di volte qualcuno, mai diremo chi, viola il Secondo Comandamento, arbitro e quarto uomo lasciano correre, basta un’occhiataccia che vuol dire: ci guardano tutti, ci sentono tutti.
Se anche ci fosse stato il pubblico, il gol del Verona avrebbe avuto la stessa glassatura di tacito sgomento che avvolge il pasticcio Audero-Zaccagni. Che cosa ci perdiamo, ogni domenica, rinunciando nel frastuono a questa corrida vocale, intonata da una ventina di ragazzi che corrono dietro a un pallone: aveva ragione Carmelo Bene, quando volle recitare il “Tamerlano” di Marlowe davanti a una platea di sole poltrone inoccupate, “perché – disse – il vero teatro fa a meno del pubblico”.
Dal Mausoleo di Lenin, alias nuova tribuna stampa, salgono qua e là urlacci di incitamento o disappunto, così come dall’inarrivabile pianterreno della tribuna. Anche tra i cronisti, o forse gli steward, c’è un cuore.
L’altoparlante interviene il minimo indispensabile, quasi a non voler disturbare la veglia. In avvio di ripresa, la voce fuori campo di questo film muto, avvisa prima che il VAR non funziona, poi che il guasto è stato riparato. Le sostituzioni vengono annunciate soltanto dai tabelloni luminosi. Il freddo cala e aggrava questo silenzio, ma in un attimo ma come accade spesso cambia il volto di ogni cosa: l’affondo di De Paoli, il gol di Quagliarella, finalmente un urlo colorato dopo tanto grigio. E poi il VAR risanato decide tutto: Valeri corre al video, i giocatori si insultano e si minacciano l’un l’altro, quelli del Doria allontanano un manipolo di veronesi dalla raccolta osservazione dell’arbitro, che va a dare il rigore.
Anche coi tifosi presenti, anche a spalti a tappo un rigore è il buco nero che inghiotte ogni rumore. Figuriamoci stavolta. Valeri fischia, sembra di udire perfino i tacchetti del tiratore che affondano nel terreno, mentre il fruscio della rete è coperto dall’esultanza doriana. Parte ancora la musica rituale, il gioco ricomincia fino alla scena che vale il pomeriggio, uno di quei momenti che non scordi. La non espulsione di Linetty, la punizione per il Verona, ventun giocatori nell’area del Doria compreso il portiere Silvestri, ecco Ranieri che urla “Qui ci giochiamo la vita!”: la stessa frase di Silvio Orlando nel finale della “Passione” di Mazzacurati. Come tutto si fa strano e difficile, come tutto è impossibile. Finisce la partita, chissà se e quando se ne rigiocheranno, parte “Ma il cielo è sempre più blu”, un messaggio in bottiglia alla Sud che è rimasta a casa. E una storia da raccontare, mentre il mondo sbanda e controsterza, in ostaggio del niente.