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C'è la Germania dietro lo scontro fra Roma e Bruxelles
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La flessibilità sui nostri conti pubblici, la gestione politica e finanziaria dell'immigrazione, l'Ilva, la creazione di una bad bank alla quale conferire 200 miliardi di crediti inesigibili e così mettere in sicurezza il sistema bancario. Sono le partite principali, ma non le sole, che negli ultimi giorni hanno scatenato un'autentica bagarre fra il governo e l'Unione europea. Una cosa mai vista. E che a Bruxelles sta facendo saltare i nervi a più d'uno.

Non gente qualsiasi, bensì il capogruppo del Ppe Manfred Weber e persino il presidente della Commissione UE, Jean-Claude Juncker. Fateci caso, il primo è tedesco, e il secondo, lussemburghese, se n'è uscito (attraverso il suo portavoce tedesco...) dicendo che "a Roma non c'è interlocutore" giusto dopo aver incontrato Angela Merkel. Per la serie: dietro la tempesta che sta investendo il nostro Paese a livello comunitari c'è la Cancelliera. Inutile usare condizionali di prudenza.

Il premier, Matteo Renzi, ha risposto per le rime. Forse esagerando, quando afferma "l'Italia è tornata", considerando i tanti problemi che ci portiamo ancora sul groppone. Ma vivaddio, la voce è ferma, alta e si fa sentire. Perché molti dei problemi di cui sopra ce li sta procurando proprio Bruxelles, con una politica rigorista di cui Berlino è l'alfiere. Per ragioni di bottega, che per l'ennesima volta nella storia impediscono alla Germania di guardare a interessi che vadano al di là dei suoi Land.

A prescindere dalle tecnicalità dei singoli dossier, ciò che dice il consigliere economico di Palazzo Chigi Yoram Gutgeld in una intervista al Corriere della Sera è semplice nella sua solarità: "Non chiediamo nulla che non sia previsto. La questione è politica, verso l'Italia c'è stata una rigidità non riscontrata con altri Paesi e noi vogliamo essere trattati alla pari". Il punto è esattamente questo. E qui si marca la differenza fra Renzi e i suoi predecessori: tanto erano timidi e proni i vari Berlusconi, Monti e Letta, tanto è deciso il Matteo nazionale.

Qualcuno potrebbe osservare che lo scenario complessivo era diverso, con l'Italia molto più debole, ad esempio per via di uno spread (la differenza fra gli interessi pagati sui titoli di Stato italiani rispetto ai Bund tedeschi) arrivato a sfiorare gli 800 punti. Non si può dimenticare, però, che l'inizio di quella tempesta perfetta fu causato, guarda un po', dalle banche tedesche, quando cominciarono a vendere quantità enormi di Bot e Cct.

Da lì ci siamo avvitati in una sequenza di situazioni che forse, anche politicamente, non si sarebbero verificate se l'Ue, come dice Gutgeld, avesse avuto verso di noi un approccio più costruttivo. Renzi i suoi errori li ha commessi e in qualche caso ha persino taroccato i dati (vedasi il jobs act e certe cifre sull'aumento dell'occupazione, dato per definitivo, mentre non lo è), però non ci si può girare intorno: a Germania e Francia in particolare, sono state permesse cose che a noi sono state negate. Vogliamo ricordare, tanto per stare a un tema caldo di queste ore, il rigore della Bce nei confronti delle banche italiane, mentre con quelle tedesche certi vincoli hanno avuto le maglie ben più larghe?

Non si tratta, ovviamente, di riscoprirsi anti-tedeschi e, di conseguenza, anti-Ue, dando spago a quel fronte di euroscettici che delirano un'uscita dell'Italia dall'Unione. Non si può dimenticare, però, che i tedeschi nella moneta unica non ci volevano, ma dopo averci infine accettato, facendoci pagare un prezzo esorbitante in termini di concambio (1.936,27 lire contro un euro), ora non possono pensare di menare la danza a loro piacimento e che l'Italia se ne stia. Come un servo sciocco e, per giunta, autolesionista.

Da questo punto di vista, i precedenti governi avevano "viziato" Berlino. Quello di Renzi, invece, non si adegua e per questa ragione si sente dire che "non è un interlocutore". Eh no, caro Juncker, non funziona così. E non basta la correzione del tiro avvenuta dopo, per la serie "abbiamo usato parole maschie, ma i rapporti sono ottimi". Ma ci faccia il piacere. E, semmai, valuti che un presidente con il fardello di un fallimento clamoroso come quello sull'immigrazione, maturato cercando di lasciare il cerino acceso fra le dita di Roma, dovrebbe aver il buon gusto di dimettersi. Altro che farsi vassallo di una cancelleria e attaccare frontalmente un Paese fondatore dell'Europa unita.