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"Perché Sanremo è Sanremo": o almeno così recita il proverbio tanto amato e citato dal Festival.

Sanremo che per una settimana attira cantanti, artisti, attori, youtubers, modelle e qualsiasi “vip” che abbia voglia di godersi i party più esclusivi, quelli in cui Bob Sinclair fa da dj e qualcuno tra i cantanti in gara si esibisce dal vivo.

Sanremo che di giorno è il palcoscenico per artisti di strada, aspiranti stilisti, sosia e imitatori, tutti a caccia di “quindici minuti di celebrità”.

Sanremo che viene presa d’assalto dai fan più agguerriti, appostati per ore sotto agli hotel, davanti all’Ariston, fuori dai ristoranti senza sapere neanche chi stiano aspettando, tutto per un autografo o un selfie da pubblicare su Instagram.
-Ma questo chi è?
-Ghemon!
-Ghemon, facciamo una foto, ti seguo da sempre.

Ma Sanremo è il terreno dei giornalisti. Li riconosci dagli sguardi di chi ha guardato cinque sere di Festival scrivendo al computer, dai badge colorati e dagli immancabili microfoni. Sono loro i responsabili per questa 69esima edizione di Festival della vittoria di Mahmood, al posto di Ultimo, tanto amato dal pubblico. In questi giorni si è gridato al "complotto", come se Fabio Rovazzi si fosse presentato a bordo del suo trattore in sala stampa con Morandi come ostaggio. La verità è che dopo cinque sere di Festival quando sul podio si sono visti Il volo, Ultimo e Mahmood nessuno ha avuto dubbi: "Soldi" era l'unica canzone che poteva tenerli svegli fino all'ultima conferenza stampa notturna. Scherzi a parte, ogni giornalista in sala ha avuto la possibilità di votare quattro concorrenti durante la prima votazione. Ultimo e Il volo sono stati i finalisti decisi da casa, mentre Mahmood probabilmente ha raccolto, oltre al favore della giuria d'onore, più consensi comuni tra tutti i giornalisti.

Il vero complotto è forse un sistema di televoto che va a dare ben il 20 % di potere ad una giuria di esperti in tutto fuorché di musica e che ha avuto il peso di cambiare assieme al 30% della sala stampa le sorti di un Festival. Festival che vuol essere "popolar nazionale", ma che alla fine fa sempre discutere tutti e di popolare ha i "soldi, soldi" spesi per esprimere un voto che conta molto poco.

Anzi c'è un complotto ancora più grosso, quello della finzione. Durante il Festival, un po' come a Natale, sono tutti più buoni. E come in ogni talk show che si rispetti, ognuno interpreta la propria parte (o quella di un altro): Baglioni che ha scambiato l'Ariston per il suo tour che celebra i 50 anni di carriera, Bisio un pesce fuor d'acqua tra Zelig e il suo spettacolo teatrale, la Raffaele che si sente più a suo agio nei panni degli altri, ma anche la platea che ride, esulta, applaude e salta sulle sedie orchestrato da un "capo ultrà", un animatore incaricato di far reagire il pubblico in sala. Per non parlare di quello a casa: "Io? Il Festival non lo guardo mai!" e sabato sera tutti sul divano con la tv accesa.