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Sotto quel ponte spezzato come il cuore della nostra città è difficile rispondere alla domanda che si fa strada un mese dopo il Grande Crollo: siamo ottimisti o pessimisti sul futuro della ex Superba?

Eppure questa domanda va posta e la risposta cercata, perché ne va del destino genovese nel terzo millennio, in un’altra epoca della nostra lunga storia, di questa Repubblica che batteva moneta per i grandi del mondo, nel suo favoloso Cinquecento, che sbatteva sotto i tacchi degli eserciti nemici degli austriaci, dei francesi, di Napoleone, che soffriva per le violenze dei Savoia e che ha sempre reagito, ancor prima di Andrea Doria, poi con il “che l’inse” di Balilla, con gente della tempra di Giuseppe Mazzini e quante altre volte nella sua storia.

Oggi sotto quel ponte, tra quelle macerie da portare via, sulla linea dei treni interrotta, nel caos del traffico montante tra Bolzaneto e Borzoli, arrivando a Lungo Mare Canepa, nelle chilometriche deviazioni autostradali, nella Valpolcevera divisa in due, collassata e con la crisi delle sue aziende grandi, piccole e piccolissime, disconnesse oramai dal territorio di relazioni commerciali e anche sociali, nella “lontananza” da tutto, ci giochiamo un possibile declino.

Essere ottimisti significa, malgrado tutto, opporsi, uno per uno, qui sì che uno vale uno, a quel declino, far valere i nostri geni storici di genovesi della lunga storia, sul Mediterraneo delle tre grandi religioni, da noi dominato un tempo con la finanza, ora frequentato con i traffici, domani ancora con la nostra posizione chiave, sul bordo del mare dai fondali profondi, a pochi chilometri dalle grandi pianure dei bacini di grandi commerci, sù, sù verso la Svizzera, verso il cuore dell’Europa dalle grandi direttrici, dei corridoi di un Continente che si sta giocando anch’esso il futuro o il declino.

Ma è duro essere ottimisti, perché ricostruire quel ponte maledetto, mentre infuriano le polemiche politiche sulla prevalenza nel governo tra i 5 Stelle che fulminano le Autostrade e i leghisti, significa sciogliere il nodo stretto della conflittualità in questo esecutivo giallo verde così composito. Significa fidarsi della spinta di Giovanni Toti, di Marco Bucci, perfino del loro eccessivo zelo comunicativo ed espositivo, come quando invitano il grande architetto Renzo Piano a mostrare il suo disegno di speranza e luce per il ponte, accogliendo perfino Castellucci il discusso amministratore di Autostrade, appena indagato.

Ottimismo significa credere che l’operazione sfollati sia in dirittura d’arrivo, mentre non sono stati ancora neppure ordinati i sensori che, applicati al relitto del ponte, potrebbero autorizzare il rientro in casa a recuperare i pezzi di vita degli sfortunati abitanti di via Porro, di via Fillak e dintorni della zona rossa.

Ottimismo significa prevedere che un cantiere possa sorgere il più presto possibile, cioè prima di Natale, per demolire e ricostruire, che le beghe politiche non intralcino il percorso intrapreso da Toti e Bucci e dalle loro squadra, in testa gli assessori Piciocchi, Balleari, Ganpedrone, Berrino, per spianare le emergenze colossali del più grave evento che si sia mai verificato a Genova dalla fine della II Guerra mondiale.

Essere ottimisti significa pensare che la città dai geni antichi e il suo Ponente sofferente da secoli, proprio perché territorio di ogni snodo industriale, portuale, infrastrutturale, sopportino il peso intero di una emergenza che non durerà qualche giorno, qualche mese, ma qualche anno, forse. Ottimismo vuol dire fidarsi della barba bianca di Renzo Piano, il senatore a vita che corre al capezzale della sua città e getta il peso della sua fama mondiale, non per protagonismo e vanagloria, ma perché è un genovese vero, che vuole un ponte proprio “alla genovese” e vuol dire lasciare che la sua spinta coaguli le imprese che demoliranno e costruiranno i pezzi della nuova grande opera pubblica.

Essere con questo spirito significa anche accettare, lavorando come fanno Bucci e Toti e le loro squadre, che la giustizia faccia il suo corso e accerti le responsabilità con la flessibilità e l’intelligenza che fin’ora ha mostrato la Procura di Genova, augurandosi che ci sia un punto di arrivo e che non incominci un altro di quegli infiniti processi italiani, senza mai una parola conclusiva. Ed è chiaro che la giustizia è non solo un diritto, ma un grande dovere morale della città e dell’Italia verso le sventurate 43 vittime, verso i feriti, verso i miracolati salvi, verso i danneggiati da questa rovina che non sono solo quelli che hanno perso la casa, ma anche tutti quelli che soffrono oggi per colpa delle conseguenze del crollo.

Infine essere ottimisti significa aspettare dall’Italia, dal suo governo, dai suoi ministri, dal suo Parlamento, una parola veloce e efficace sul meccanismo, un decreto, una legge , un emendamento, attraverso il quale Genova sarà risarcita dall’immane danno subito alle 11,34 del 14 agosto scorso. Altrimenti si è pessimisti e si accetta il declino strisciante delle decisioni non prese o rinviate o deviate o subordinate ad altri imperativi.

Si sopporta che la nebbia dell’oblio si spalmi su questa città spezzata e sofferente, giorno per giorno, che le luci accecanti dell’emergenza, per le qual siamo stati e siamo ancora una delle prime notizie al mondo, si riducano e si spengano e che il silenzio cali come una coltre scura su quegli spezzoni di ponte, in mezzo alla valle che una volta era celebrata per il “saper fare” dei genovesi e che oggi diventerebbe il cimitero delle nostre speranze.