cronaca

Due navi varate a Genova, due tragici destini
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Delle 1706 persone imbarcate su quella favola di nave, ne morirono solo 46, 1134 passeggeri furono salvati insieme con l’equipaggio agli ordini di un comandante, Pietro Calamai, prima discusso poi diventato negli anni un eroe indimenticabile. Uno spettacolo terribile, indimenticabile, dopo undici ore di agonia e di un salvataggio che non ha quasi uguali nella storia della Marina mercantile.

Nella nebbia-foschia di quel tratto di mare, a un passo dalla costa, la linea elegante di quel transatlantico, che incarnava il massimo del “made in Italy”, prima che esistesse il nome di quello stile e il termine di “design”, fu squarciata, alle 23,10 di notte, dalla prua acuminata dello Stockholm, un rompighiaccio svedese che aveva sbagliato rotta, finendo addosso alla nostra ammiraglia in navigazione per la sua centesima attraversata atlantica, nel viaggio di linea Genova- New York.

Come un apriscatole quella prua squarciò sei ponti in altezza dell’Andrea Doria, penetrando come una lama nella pancia della nave, dal sotto linea di navigazione, dove c’erano i depositi di carburante, le sale macchine e, salendo, le cabine dei passeggeri. Una ferita a morte che è rimasta per sempre la grande ferita della marineria italiana, dal momento nel quale quella notizia rimbalzò attraverso l’Oceano Atlantico fino a Genova, che si svegliò in una mattina calda di fine luglio con quella notizia incredibile: l’Andrea Doria sta affondando, speronata da una nave svedese al largo di New York.

Tanti anni dopo il Titanic, in circostanze tanto diverse, ma con la stessa eco provocata in una città di mare, di porto, di navi, di cantieri, di capitani, equipaggi, marinai, di tutto un mondo per il quale quel porto, quell’andarivieni dei “bastimenti” era il sale della vita, del lavoro, il metro del proprio orizzonte. Un orizzonte lontano, ma anche a poche miglia dalle banchine, dai moli, dagli scagni, dal cantiere dove quella nave era stata costruita come un gioiello perfetto, curato in ogni suo dettaglio: dalle macchine che ne spingevano le grandi eliche agli arredi sopraffini della Prima classe, alle opere d’arte appese nei saloni eleganti.

“L’Andrea Doria sta affondando”: la notizia, telegrafata con l’alafabeto Morse negli uffici della società Italia di Navigazione, che era l’armatrice di Stato della nave, in quel palazzo ombelicale di Piazza De Ferrari, dove ora ci sono gli uffici della Regione Liguria e dove allora potevi andare a comprare i biglietti per imbarcarsi sulle navi che percorrevano le flotte del mondo a Est e a Ovest, verso Nord o verso Sud, era diventata poi l’immagine fotografica e poi il film da cine giornale di quel capovolgimento della natura.

Perchè non era un capovolgimento di tutti i valori della storia marinara in tempo di pace, anzi di quasi boom economico, vedere quella nave rovesciata, con i fumaioli scomparsi nelle onde, la pancia dello scafo in un ribollire di schiuma che emerge dal mare piatto, beffardo nella sua calma e intorno come tante piccole formiche le scialuppe di salvataggio con i remi alzati che si allontanavano da quello che stava diventando un relitto? Era uscita nove giorni prima dal porto di Genova, salutata come sempre dal suono delle sirene, con la maestosità di quelle navi che non ha nulla a che fare con la monumentalità quasi edilizia dei colossi di oggi, alti due volte, tre volte l’Andrea Doria di allora, lunghe duecento metri di più, larghe più delle portaerei. Si era lasciata dietro il suo porto-madre e con il suo carico di viaggiatori e l’equipaggio aveva puntato la sua rotta, senza che ovviamente nessun presagio di alcun tipo potesse presagire quella tragedia.

C’era una nave più sicura, più bella dell’Andrea Doria? C’era un comandante più affidabile di Piero Calamai, che aveva affrontato durante la guerra battaglie di tutti i tipi, salvando navi e equipaggi, affrontando anche veri naufragi, nei quali aveva maturato una esperienza che gli sarebbe stata fondamentale per ordinare l’ineluttabile sgombero, appena valutato il terribile impatto con quel fantasma sbucato dalla nebbia, davanti a New York?

Quanto è rimasto, sessanta anni dopo, di quella tragedia che aveva colpito la flotta italiana, la marineria, Genova, la sua tradizione di perizia navale, di costruzione cantieristica, diventando anche un delicatissimo caso di responsabilità per gli assicuratori, i riassicuratori, tutto quel mondo dello shipping, che allora non si chiamava ancora così all’inglese, ma che aveva a Londra presso i Lloyd, le grande compagnie riassicuratrici dei maxi rischi navali, la sua capitale?

Le nuove generazioni non sanno, quelle anziane, che hanno vissuto quel 26 luglio e possono paragonarlo con i tempi moderni, ricordano un’ operazione di salvataggio perfetta. Morirono solo le vittime dirette dell’impatto, chi era già sceso in cabina, lasciando i saloni di ricevimento dove si festeggiava l’ultima serata della traversata. Calamai e l’equipaggio riuscìrono a salvare tutti gli altri, facendoli calare con le scialuppe, tirate giù grazie a una tecnica “da guerra”, imparata dal comandante, dal lato nel quale la grande nave si era inclinata imbarcando acqua dalla sua profonda ferita. E da dove era più difficile scendere in mare. Ma eravamo vicini alla costa, in una zona trafficata.

Già nella notte il transatlantico francese “Ile de France” si era avvicinato all’Andrea Doria, ferita a morte. E dopo una iniziale incertezza, che destò molte polemiche, la nave killer, lo Stockholm, che nell’impatto era rimasta perfettamente in linea di navigazione con solo la prua squarciata (la nave poi ricostruita ha navigato sotto diverse bandiere fino a 15 anni fa), prestò anch’essa i soccorsi.

I pochi testimoni che oramai sono in grado di rievocare raccontano che il comandante Calamai, fatti salvare tutti i passeggeri e l’equipaggio sulle scialuppe, non voleva lasciare la nave. Racconta Pierangelo Campodonico, direttore del Museo navale di Genova e grande esperto di storia della Navigazione che “Calamai ai suoi ufficiali, che lo invitavano a salire sulla ultima scialuppa con loro, inizialmente disse di no. Io resto qua. Solo davanti alla risposta del “secondo” e del “terzo” che gli ribatterono, comandante, allora restiamo anche noi, il comandante si convinse a lasciare la sua Andrea Doria".

L’intenzione di restare a bordo era dettata dal fatto che, in una vicenda precedente di naufragio, quello della Mafalda, il cui capitano lasciò la nave per ultimo, accadde che poi l’imbarcazione restò comunque a galla e fu recuperato da un armatore, il quale, sulla base del codice della navigazione ne divenne propietario, trattandosi oramai di “res derelicta”. Calamai forse sperava anche che l’Andrea Doria ce la facesse e potesse essere in qualche modo recuperata.

Invece poi l’affondamento fu rapido e quell’immagine del mare che si chiudeva sopra la chiglia rovesciata è rimasta come la lapide di una vicenda che per Calamai ebbe solo alla fine un giusto riconoscimento del suo valore. All’inizio ci furono le polemiche sull’incidente, il palleggio delle responsabilità: chi aveva sbagliato nella nebbia di Nantucket? Si poteva fare altro per evitare l’impatto con lo Stockolm che navigava con il timone in mano a un giovane ufficiale e il capitano sottocoperta, si poteva segnalare in altro modo la propria presenza? Chi non aspettò del tutto l’accertamento delle inchieste che la Marina Usa aprì sul clamoroso naufragio furono le assicurazioni, che trovarono subito un accordo risarcitorio, dimostrando anche la capacità dei broker dell’epoca di sbrogliare una matassa così complicata: la nave più importante dell’Italia Navigazione naufragata, le 46 vite perdute, i danni allo Stockolm, i passeggeri feriti, le operazioni di salvataggi. Calamai fu completamente riabilitato, ma soffrì molto e morì quindici anni dopo quel 26 luglio 1956 con in bocca ancora la domanda incubo: “Tutti i passeggeri sono in salvo?”.

Sessanta anni dopo a Genova ci sono celebrazioni, rievocazioni, qualche amarcord, come quello ricostruito su “Il Secolo XIX” di Linda Morgan, all’epoca del naufragio una ragazzina, che si salvò miracolosamente, ritrovandosi sul rostro della Stockolm. Dormiva nella cabina 52, vicino a sua sorella, quando la prua della nave svedese “penetrò” per 22 metri nella fiancata con una larghezza di 19 metri e devastò la cabina. Sua sorella precipitò nell’Oceano ed è una delle 46 vittime. Linda, invece, si ritrovò sul suo materasso, sulla punta dello Stockolm che aveva ritratto la prua dopo l’impatto. Più di un miracolo.

Sono passati sessanta anni e a Genova ora, proprio quasi all’imboccatura del porto dal quale l’Andrea Doria era partita, c’è il relitto disossato fino all’ultimo ponte della Concordia che i riparatori navali stanno finendo di smontare fino all’ultimo pezzo di ferro. Era una montagna “raddizzata” dopo un naufragio pazzesco senza nebbia, senza responsabilità di altre navi, ma solo la voglia di un “inchino” all’Isola del Giglio. E’ tornata a Genova come in un corteo funebre trainata da quattro rimorchiatori per essere demolita. Un’altra storia. Una storia di disonore marittimo, quello del comandante Francesco Schettino, mentre la storia dell’Andrea Doria e del comandante Calamai è di un vero onore. 

In collaborazione con blitzquotidiano.it