economia

Siderurgia, a Genova altra calda giornata in piazza
5 minuti e 7 secondi di lettura
La Fiom da una parte, l'amministrazione regionale ligure dall'altra. E nel mezzo, fra l'incudine e il martello, il governo. All'apparenza è una singolare convergenza politica quella che si sta verificando intorno all'Ilva, al suo salvataggio e alle garanzie retributive per i lavoratori, compresi quelli di Genova e Novi Ligure. In realtà, essendo noti i giudizi negativi che su Matteo Renzi arrivano dal sindacato di Maurizio Landini e dal governatore Giovanni Toti, l'alleanza è meno spuria di quanto sembri.

La Regione Liguria accusa l'esecutivo di non aver mantenuto i patti e di aver fatto naufragare l'emendamento alla Legge di Stabilità che avrebbe dovuto portare 10 milioni nel carniere del pacchetto garanzie per le maestranze
(ma il Pd controbatte che non esiste alcun documento ufficiale né ufficioso). La Fiom dice la stessa cosa, perché giudica insufficiente il provvedimento, giovedì alla Camera, che con la firma del parlamentare genovese Lorenzo Basso alza dal 60 al 70 per cento della retribuzione la paga assicurata fino al prossimo settembre ai dipendenti del colosso siderurgico sull'orlo del crac. E così per Genova ecco servita l'ennesima calda giornata in piazza. Con gli altri sindacati, Fim Cisl e Uilm, che peraltro non la pensano come la Fiom e vedono nella tutela dei lavoratori comunque un passo avanti, sebbene piccolo.

La vicenda è complessa e vale la pena di provare a rimetterla un po' in ordine. I 10 milioni dell'emendamento alla Stabilità scritto dagli uffici della Regione Liguria, come racconta l'assessore Edoardo Rixi, avevano un difetto fondamentale: sbattevano contro l'estinzione dei contratti di solidarietà prevista dal Jobs Act e che dunque non possono essere finanziati oltre la loro fine. Poi, se vogliamo, possiamo aggiungerci qualche problema di copertura che sarebbe potuto sorgere, anche considerando la battaglia che Roma deve combattere con l'Europa per farsi passare il principio di flessibilità sui conti (maglie più larghe rispetto ai vincoli di Maastricht). Mettere altra carne al fuoco avrebbe potuto pregiudicare l'impianto generale, ma il punto era e resta tecnico, legato a una scadenza di legge. Insormontabile.

Semmai, ed è questo il vero nodo della questione, c'è molto da discutere sul tempo perduto nel cercare una svolta vera al dossier Ilva. La strada maestra sembra essere quella della vendita, ma qui l'effetto collaterale provocato dalle condizioni del gruppo è quello di possibili aspiranti che non hanno alcun interesse a entrare nella partita fino a quando il prezzo non sarà decisamente conveniente. E meno male che il governo, qui sì con coraggio, ha del tutto sganciato il tema della bonifica ambientale dalla cessione dell'Ilva. Su quegli 800 milioni sconteremo l'apertura di una procedura di infrazione per "aiuto di Stato", ma almeno questo argomento - con il corollario della farraginosità del sistema burocratico italiano in materia - esce dalle cause che possono frenare i potenziali acquirenti.

Su questo versante Renzi continua a vagheggiare una cordata di "capitani coraggiosi" italiani che, insieme con Cassa Depositi (potrebbe rilevare fino al 40 per cento), prenda in mano il gruppo.
Magari sotto la guida di Paolo Scaroni, ex timoniere di Eni ed Enel e con una competenza specifica nel settore grazie ai suoi trascorsi nella Techint della famiglia Rocca. L'opzione somiglia tanto alla vicenda Alitalia dell'era Berlusconi. E tutti sappiamo com'è andata poi a finire (male, anche con l'arrivo di Etihad, che non ha fatto sconti). Allora, mentre scattano i trenta giorni per presentare le manifestazioni di interesse all'acquisto dell'Ilva, ecco fare capolino anche l'ipotesi di darlo in affitto, il gruppo, rinviando la cessione a una seconda fase.

Idee poche e confuse. Per uscirne forse bisognerebbe ripensare alla sortita originaria del premier, che prevedeva l'estrema ratio della nazionalizzazione. È vero che non sono più i tempi e che questo costerebbe parecchi milioni alle casse statali e, quindi, ai contribuenti italiani. Ma siamo certi che sarebbe il peggio? Fra i possibili compratori ora è spuntata la coreana Posco, che il mestiere siderurgico certamente lo sa fare. E però: quale altro Paese, in Europa o nel resto del mondo, accetterebbe di uscire da un settore assolutamente strategico come quello dell'acciaio? Nessuno, ovviamente, come si è già potuto vedere in altre vicende che hanno riguardato, per esempio, le telecomunicazioni piuttosto che l'energia, i trasporti e aziende della difesa.

Ma per nazionalizzare l'Ilva occorrerebbe una deroga dall'Ue.
La siderurgia, infatti, non è più fra i settori su cui un Paese comunitario può far scattare la clausola di salvaguardia dell'interesse nazionale, ammessa in altri casi. L'abbiamo deciso anche noi: senza pensare alle conseguenze e quando le altre cancellerie avevano, al contrario, già risolto ogni loro problema. Incapaci, insipienti, incompetenti, sprovveduti? Ma sì, diciamocelo: dei coglioni!

Fatto è che in tema di politica industriale eravamo e restiamo all'anno zero. La domanda da farsi, in realtà, è semplicissima: che cosa vogliamo fare davvero dell'Ilva? Il modo è solo una tecnicalita' che verrà di conseguenza. Al netto dei vincoli di tipo europeo che non c'erano, basta guardare come a suo tempo si è mosso Barack Obama per salvare la General Motors e la Chrysler. Ha cominciato da una scelta ben precisa: gli Usa devono rimanere forti nell'industria automobilistica, che per inciso si nutre anche di acciaio. Poi ha selezionato il partner - guarda il caso un'azienda italiana, la Fiat - infine ha stabilito il percorso da compiere.

Sull'Ilva, invece, si sta procedendo al contrario. Con un'indecisione che rischia solo di rendere ineluttabile il fallimento del gruppo. E lì si apriranno due scenari: qualcuno comprerà a prezzi stracciati oppure non comprerà nessuno e i protagonisti del mercato globale si saranno sbarazzati, senza colpo ferire, di un concorrente. Che è pur sempre un buon affare. Per loro.

Allora, se anziché il dito si guarda la luna, forse si capisce meglio che in gioco c'è di più, molto di più, della garanzia salariale a breve per i dipendenti. Con tutto il rispetto loro dovuto, sia chiaro. Ma se una battaglia Genova deve combattere è quella di puntare i piedi per sedere al tavolo che deciderà il vero futuro dell'Ilva. Sempre che ne possa ancora esistere uno.