economia

L'esito delle votazioni lascia aperti molti problemi
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Diciamoci la verità, le prime parole di Umberto Risso come presidente designato di Confindustria Genova sono state una delusione. Una imbarazzante delusione. Sia quando afferma "riposiamoci" (è la prima volta che capita), sia quando cerca di spiegare perché non capisce la discontinuità (difatti promette continuità, evvai) sia quando si sottrae alla opportuna domanda di Dario Vassallo sul destino dell'ex Ilva e sulla protesta dei lavoratori contro la cassa integrazione, unilateralmente decisa dall'azienda.

Il primo punto non merita commenti, salvo un che di tristezza. Sul secondo, è evidente il riferimento di Risso al mio editoriale su Primocanale.it: il presidente in pectore ha tutte le ovvie ragioni di dissentire e ogni opinione va rispettata. La mia l'ho declinata in quell'articolo e si può condensare così: era meglio Sandro Scarrone, il competitore di Risso.

Sul terzo punto, quello riguardante la ex Ilva, qualcosa da dire invece c'è.
Il presidente designato, cioè, si è infilato in una supercazzora per non dire niente, neppure che suo avviso, e a parere di quella che sarà la sua Confindustria, Arcelor Mittal ha ragione. Avesse detto questo avrebbe detto una cosa per me non condivisibile, tuttavia avrebbe preso una posizione, avrebbe fatto vedere che Confindustria è pronta a dare battaglia, che è disponibile a finirla con i tentennamenti e le prudenze del passato. Che è pronta a mettere le mani nella carne viva delle questioni.

Sarebbe stato un modo per segnalare una svolta, riportando Confindustria Genova al centro del ring mentre si disegnano, in vario modo, i destini della città. Invece, niente. Anzi, peggio. Risso, ci informa che Confindustria "non ha alcun potere decisionale". Vero, ma solo se crediamo ancora alla Befana. Qualcuno informi il presidente designato che gli imprenditori hanno un potere vero, se decidono di esercitarlo, e che possono farsi sentire eccome. Difatti, non mancano di farlo quando si mettono in discussione gli interessi di bottega di una singola azienda o di un comparto. Chissà perché, invece, diventano afoni appena c'è da parlare dell'interesse della città, magari anche a discapito di qualche posizione imprenditoriale o, peggio, di qualche rendita di posizione.

In questo scenario, l'amarezza di Scarrone è comprensibile. E ancor di più la prevedibile incazzatura di Giuseppe Bono, numero uno di Fincantieri, mondo dal quale viene lo sfidante di Risso. Nell'immediatezza della sconfitta, Scarrone ha osservato: "Dispiace che il nostro programma abbia incontrato molto interesse in città e, invece, non sia stato capito dai colleghi". Forse, caro Scarrone, lo hanno capito benissimo! E per questo motivo hanno voltato il capo altrove. Lei, però, non commetta l'errore di cedere le armi (in verità ha promesso battaglia). E Fincantieri non faccia l'errore di andarsene da Confindustria Genova. Certi cambiamenti si fanno dall'interno. Costa più energie, ma ne vale la pena. E ricordino, Bono e Scarrone, che gli assenti non hanno ragione. Hanno torto. E anche la loro storia personale non merita ciò.