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Via libera dei grillini con il 59,3% di "sì", imminente la salita al Colle per sciogliere la riserva
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C’era un allenatore di calcio degli anni Settanta che diceva “I giocatori sono liberi di fare quello che voglio io”. Così Mario Draghi concede alle forze politiche, o meglio debolezze, la fiera della vanità delle consultazioni, pur avendo già chiaro quel che era implicito nelle parole di Mattarella: un governo di alto profilo che non dovesse identificarsi con alcuna formula politica. Il costante cerimoniale di congedo da ogni delegazione accolta a colloquio, infatti, è eloquente: “Va bene, ci vediamo in aula”. Tradotto: io vi ascolto, ma ho già deciso. Il presidente incaricato sa infatti di avere le spalle coperte dal capo dello Stato, che ha escluso elezioni e sarebbe stato disposto anche allo scenario di un governo di minoranza. Enrico Cuccia, cui Draghi era stato sul punto di succedere a Mediobanca, amava dire: “I voti non si contano ma si pesano”. E il voto autoreferenziale dell’ex presidente BCE ha un peso transuranico, sullo scenario europeo e mondiale che poi è quello che in questo momento conta.

Il rinvio della cerimonia prevista domani per l’anniversario dei Patti Lateranensi, che avrebbe potuto essere l’ultima occasione per Conte di presentarsi da primo ministro, è un chiaro indizio di come il 12 febbraio segni invece il primo dei giorni utili per la visita al Colle di Draghi con la lista dei ministri. L’avvocato foggiano in uscita da Palazzo Chigi sembra seguire il destino di altre metore “prestate” alla politica: Pd e Iv, fortissimi in zona, si oppongono alla sua candidatura alle suppletive di Siena; l’ipotesi di correre a Roma per il dopo-Raggi è già stata bocciata al Nazareno; perfino il concorso per la cattedra di diritto privato alla Sapienza è un treno ormai passato, il posto che fu del suo maestro Guido Alpa è andato al giurista napoletano Giovanni Perlingieri.

Sicuro dell’esito della missione, l’uomo che negli ultimi anni ha firmato più autografi in Europa, non ai fans ma ai possessori di banconote, ha pazientato anche di fronte al dilatorio rituale della consultazione telematica grillina: un quesito a risposta sì/no, tortuoso nella forma ma in sostanza equivalente al “Qual è la targa automobilista di Siena?”. La risposta dei 74.537 iscritti ha visto il 59,3% di consensi, contro il 40,7% di dissensi: non un plebiscito ma un’indicazione comunque chiara.

I giocatori sono quindi liberi di fare quello che vuole Draghi.
Che ha fatto sapere a tutti: per la scelta dei ministri “verrà applicato l’articolo 92 della Costituzione, alla lettera”. Saranno quindi soltanto il capo dello Stato e il presidente del consiglio a scegliere, in piena autonomia, i tecnici a maggioranza e gli eventuali politici chiamati o confermati come ministri, metà uomini e metà donne. I dicasteri di peso saranno affidati a tecnici puri, mentre gli esponenti di partito avranno funzione di zavorra in senso strettamente tecnico, visto che serviranno alla stabilizzazione della compagine.

I capifazione intenzionati a entrare, rientrare o restare al governo dovranno abbozzare. Oppure dedicarsi al gioco feroce della scomposizione e ricomposizione del quadro, visto che il probabile biennio “tecnico” non lascerà nulla di intatto nell’attuale panorama: se da una parte sono già in corso i regolamenti di conti all’interno delle due forze principali della maggioranza uscente, con Zingaretti sotto attacco e figure importanti del grillismo a partire da Carelli impegnate in altre direzioni, dall’altra il centrodestra vede una chiara OPA su Forza Italia (e sui suoi voti) avviata sia da Renzi che dal neomoderato Salvini, con la sola Meloni a presidiare la frontiera di un’opposizione solitudinaria di taglio veteromissino.

Ma di tutto questo a Draghi poco importa: scontentare tutti è il modo più efficace per accontentare tutti. Almeno in Italia.