La domanda è provocatoria: a che cosa dovrebbe rinunciare Genova per risparmiare? Fra le quattro opzioni offerte da Primocanale.it figurano l'aeroporto, i teatri, i musei e pure i piccoli ospedali. Questi ultimi sono esattamente la cosa che butterei giù dalla torre, visto che zavorrano - e non solo a Genova - i conti della sanità regionale, con il risultato di mettere in croce la qualità e la quantità di buona assistenza alla salute dell'intera Liguria.
Il discorso, però, è più ampio e, allora, rispondo al quesito salvando pure quei piccoli paradisi di piccoli baroni in camice bianco. Per risparmiare, Genova non deve rinunciare proprio a un bel niente. Anzi, a una cosa sì: a quella cultura della rendita di posizione che da anni, ormai, obbliga la città a rinunciare esattamente a ciò che non dovrebbe, cioè investimenti e amore per il rischio calcolato.
Fateci caso: sono esattamente i due ingredienti che hanno costruito la fortuna della Grande Genova, facendone la culla della Borsa, della Banca d'Italia, di aziende storiche come l'Ansaldo e di quant'altri frutti succosi sia stato possibile cogliere coltivando il campo bene arato dei traffici marittimi, del commercio, della creatività, dell'intrapresa.
Nel linguaggio politico, economico e industriale c'è oggi un termine abusato e che persino ha perso ogni suo effettivo valore: innovazione. Beh, pure questo, l'innovazione, è stato il marchio di fabbrica della città. Solo che nel tempo tutto si è diluito, fino a smarrirsi, consegnando alle generazioni di oggi una Genova sparagnina non per l'antica attenzione verso i dobloni, ma perché ha perduto la propria essenza. Quella che, pure, sta ancora scritta da qualche parte nel suo dna.
Non c'è nulla da risparmiare, dunque. Semmai, c'è da riallacciare il filo di un discorso interrotto troppo a lungo. Sarebbe facile dire per colpa principale della politica. Ma a questo disastro in verità ha contribuito l'intera classe dirigente, della quale non fanno parte solo i politici, ma anche gli imprenditori, i grand commis pubblici, i sindacalisti, noi stessi giornalisti e chiunque svolga una qualche attività che abbia ricadute collettive. Ognuno ha la sua fetta di responsabilità e nessuno può scagliare la prima pietra.
Poi, certo, una riga va pur tirata. Ma se si arriva all'ipotesi che per tenere in piedi i propri conti Genova debba rinunciare a qualcosa che partecipa a produrre la qualità della vita si capisce bene solo la ragione che ha fatto perdere alla città decine di migliaia di abitanti. Musei, teatri, aeroporto, piccoli ospedali costano, ma cominciare a tagliare non risolverebbe il problema. Lo accentuerebbe, anzi, perché toglierebbe un altro quid a chi sarebbe pronto, prontissimo, a farsi conquistare da una città bellissima e baciata dagli dei del clima, dell'ambiente, del paesaggio.
Meglio, molto meglio, cominciare a ragionare come si possono gestire proficuamente le cose, le tante cose, che ancora formano il patrimonio inestimabile di Genova, senza ritenere che essa sia soltanto un osso da spolpare. Meglio riscoprire la capacità di pensare in grande. Con giudizio, ma in grande. Come si deve alla storia di una città chiamata Superba.
politica
Genova non rinunci a niente ma torni ad amare il rischio
La cultura dell'intrapresa soffocata dalle rendite di posizione
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