politica

L'invettiva
7 minuti e 44 secondi di lettura
Possibile che la nostra qualità della vita decada così drasticamente, mentre siamo così belli, attraenti, pieni di segreti da scoprire, perfino meglio di Firenze, come ha quasi urlato alla vigilia di Natale Sua Eminenza il cardinale Angelo Bagnasco?

Se lo è chiesto Mario Paternostro, suonando un allarme natalizio e mi viene voglia di rispondere e di trovare una spiegazione a questo declino un po' depressivo che le luci di fine anno non affievoliscono, anzi accelerano: dal quarantaquattresimo posto nella classifica dei Comuni sulla qualità della vita all'ottantottesimo tra le Provincie.

Da trent'anni stiamo cambiando pelle e dimensioni, meno 250 mila abitanti, meno centomila lavoratori industriali, meno un numero spropositato di aziende e di relativi posti di lavoro, cancellato quasi del tutto il nostro destino IRI, di capitale dell'Industria di Stato.

Solo in conseguenza di questa trasformazione kolossal a un certo punto abbiamo incominciato a chiederci, cambiando le prospettive, quanto eravamo belli, vivibili, attrattivi per il mondo intorno, per il turismo e anche per noi stessi.

Prima chi si sarebbe mai sognato di esaminare la Superba sotto questo profilo quasi estetico, della qualità della vita? La qualità della vita era la sicurezza del lavoro, la certezza di un sistema politico-amministrativo.

Ma ve li immaginate i consigli di fabbrica di allora, gli industriali, gli armatori, i solidi commercianti a porsi una domanda del genere? E i politici, i sindaci, gli assessori, i Pertusio, i Pedullà, gli Adamoli, i Taviani, i fratelli Macchiavelli ed anche gli altri “minori”, di fronte al problema dei canoni estetici, della capacità di attrazione turistica.? Non vorrete mica diventare una città di camerieri? _ era lo sprezzante anatema del Pci potente, egemone, duro e puro del pre compromesso storico.

Fabbriche, altoforni, grandi capannoni, fiumi di tute blù e di camalli avviati dalla Chiamata sui moli, sui vapori, tutto al più scagni sobri e senza il minimo appeal international e poi la rude storica bellezza dei luoghi: Boccadasse, la sagoma di Portofino, near Genova, come ironizzavano escludendo che in città ci fosse qualcosa di bello. E cosa altro ? I capolavori del Seicento un po' esposti a Palazzo Rosso e Bianco, luoghi segreti, quei palazzi storici sparpagliati e ancor più nascosti , a via Garibaldi e nei caruggi, luogo misterioso, a Prè, nota per le sigarette e il cioccolato svizzero di contrabbando nel mercatino di Prè, in un folklore per nulla pericoloso, a Luccoli nota per un paio di negozi dove la borghesia genovese scendeva a comprare qualcosa e in via degli Orefici e Scurreria le “firme” storiche del commercio di elites di Codevilla e Pescetto.

Il porto un'attrazione? Ma figuriamoci.
Era dietro un muro di barriere fisiche doganali, commerciali e dall'altra parte sentivi solo il sibilo del grano che precipitava nei silos con un rumore secco e cupo e le sirene delle navi. Si può dire che al porto davamo la parte posteriore del nostro corpo e ancor più, quando era arrivata la Sopraelevata che ne sorvolava i traffici un po' caotici, un po' misteriosi. Il mare lo conquistavi nella lontana e separata Corso Italia, che solo quelli di Albaro frequentavano, gettando occhiate curiose ai cancelli del Lido che si aprivano su ristoranti, Caravelle, concorsi estivi di bellezza, dedicati a pochi e selezionati.

Tutto questo e il resto sembrava storico, roccioso, solido ma cercarci l'estetica, se non quella del lavoro, della fabbrica, del commercio, era impossibile.

Le periferie erano le periferie senza aggettivi
: grigie lunghe anche un po' spaventevoli come la val Polcevera, dove bruciava la fiamma perenne della Raffineria Garrone, che ai bambini per tenerli buoni raccontavano fosse la “casa della strega”.

Poi erano fabbriche lunghe e rumorose, rioni popolari grigi, compatti.
Sulla costa il mare era stato piombato e correndo con il treno da Ponente verso Principe te lo vedevi sparire sotto gli occhi nascosto dalle Fonderie, dai Cantieri di Sestri e poi dal “mostro” dell'Italsider, una grande muraglia fino alla Lanterna e non c'era il cielo azzurro di Erzelli sotto il quale salire per respirare l'orizzonte del Golfo, ampio, da riempirsi i polmoni, fino a Portofino con le praterie blù del mare a perdifiato.

Quello sì che era bello e attraente, ma era il mare dei traffici o delle grandi tragedie come quando ci morirono i marinai inglesi della London Valour, neri di pece sulla nave, schiantata dalle onde sulla Diga Foranea dalle raffiche di un vento blu, fortissimo vivido, con tutta la città rapita dalla tragedia, ma anche dalla furibonda bellezza delle onde sotto casa.

Incominciammo a capire che stava cambiando qualcosa all'inizio degli anni Ottanta, mentre si profilava la crisi industriale, un giorno nel quale noi giovani cronisti, io Mario ed altri, scoprimmo che nel consiglio di fabbrica dell'Ansaldo, fabbrica-madre della città, erano stati eletti più impiegati, cioè colletti bianchi, che tute blu, cioè operai. Cosa voleva dire? Che il nostro mondo stava mutando, che nella grandi fabbriche gli equilibri si spostavano verso chissà cosa. Nel silenzio delle istituzioni e sopratutto dei partiti, in primis del Pci potente e che governava Comune, Provincia, Porto, e ogni tanto anche la Regione e le istituzioni culturali più importanti, fatta salvo il Teatro Stabile di Ivo Chiesa, lanciammo su “Il Secolo XIX” una inchiesta di quelle di una volta, intitolata : “Il futuro di Genova, in cravatta o in tuta blù?”.

Era un modo di semplificare, di banalizzare, se ci aspettava un futuro diverso da quello industriale, se avrebbero avuto il sopravvento “i camerieri”, se la città viaggiava verso un futuro “terziario”.

L'inchiesta ebbe un grande successo, perchè scoperchiò un tema che avrebbe occupato i successivi trent'anni di dibattiti e obbligò tutti a porsi il problema. Con qualche orgoglio da vecchi cronisti, ultra senior, ne rivendichiamo la primogenitura. Nacquero e continuano confronti, ribellioni, scontri, delusioni, fallimenti e grandi novità. Stavamo anche uscendo dai mortiferi anni di piombo, che avevano calato una cappa nera su Genova e bruciato anche molte capacità di analisi, di studio, di approfondimento.

Altro che sul futuro, allora ci si scannava sugli slogan “Nè con lo Stato, né con le Br”, ci si torturava sulla politica trattativista con le Br, che i socialisti di Craxi perseguivano contro tutti e che qualche giornale, come “Il Lavoro”, diretto da Giuliano Zincone, lanciava nello scandalo generale.

La coscienza di una qualità della vita diversa venne dopo, ma in modo inarrestabile. Furono fatte battaglie di stampa durissime perchè finalmente Genova avesse alberghi decenti per accogliere i turisti, perchè l'aeroporto, che noi battezzavamo aeroporto-baracca, diventasse uno scalo decente, perchè incominciassimo a scoperchiare i nostri tesori, perchè il Carlo Felice fosse ricostruito finalmente e il palazzo Ducale riavesse la sua dignità dogale, invece di ospitare gli uffici giudiziari. Ci sarebbero voluti i grandi Eventi, il Mundial di calcio, le fatidiche Colombiane del 1992, poi il 2004 della Cultura per lanciare la riconversione della città.

Ma eravamo in una corsa ad handicap che tutt'ora dura e che le classifiche sulla qualità della vita del terzo Millennio ci dimostrano.
La cultura egemone nella città, cultura ideologica, forte in una città “separata” al suo interno da veri e propri muri, non spingeva quella visione nuova di aperture, era troppo impegnata a difendere i beni primari dell'occupazione e della relativa difesa dell'esistente. E accadeva che Riccardo Garrone, proponente con gli americani di una Disneyland europea al posto dell'Italsider, fosse considerato un visionario, mentre......

In alcuni luoghi topici della città si creavano scontri epici, come a Cornigliano, tra il lavoro delle fabbriche sputa-fuoco e le condizioni della salute pubblica nella delegazione inquinata.


Venivano prima i servizi pubblici garantiti a prezzo politico e si aprivano così le voragini dei deficit delle grandi aziende comunali, non ancora partecipate, che avrebbero trasferito i loro buchi in secula seculorum, fino a danneggiare irreparabilmente i servizi di trasporto, di nettezza urbana, di cura dei giardini, come oggi avviene in modo eclatante.


Perchè siamo quarantaquattresimo e ottantesimi in quelle classifiche? Anche perchè dobbiamo rimontare quella cultura, che aveva radici profonde nella città e non solo in quella della politica militante di partiti e istituzioni, ma nel resto, nei gangli della società civile più delicati e diffusivi, come per esempio nella scuola, dove i decreti delegati introducevano fondamentali principi democratici, ma anche scorie di anti modernità.


Siamo spesso belli in modo struggente, come Mario ha descritto, ma quella bellezza blu, di ardesie, di improvvisi scorci emozionanti nelle creuze che precipitano verso il mare o negli angoli segreti dei caruggi, dove si ergono i palazzi dei Rolli, bene dell'Umanità, è ancora poco servita, irraggiungibile con i treni e gli aerei, poco fruibile, poco assistita e non solo perchè qui “la torta di riso” è quasi sempre finita, tanto per usare lo schema comico-irridente della rusticità genovese e ligure, ma perchè il gap da rimontare è complesso e si scontra con una città la più vecchia del mondo, con una demografia in prospettiva sempre più pesante. E con quel maniman che nessuno riesce ad ammainare.