politica

L'editoriale
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Domani gli azionisti della Fiera di Genova – Comune, Città metropolitana (ex Provincia), Regione Liguria, Camera di Commercio genovese, Autorità Portuale della Superba – sceglieranno i nuovi vertici dell’azienda. Cominceranno a parlare in concreto anche del futuro? In realtà hanno cominciato durante il vertice della scorsa settimana, quando hanno deciso di firmare l’accettazione del Blue Print, il progetto regalato da Renzo Piano che ridisegna una fetta di area a mare antistante la città, unendo non solo virtualmente il Porto Antico alla Fiera stessa. Lì si gioca molto del potenziale sviluppo genovese nei prossimi decenni, passando attraverso comparti economici – turismo, nautica, grandi eventi (su tutti il Salone) – chiamati a ribilanciare, finalmente, le emorragie industriali e l’incompiuta scommessa sull’hi-tech (al di là delle sorti del villaggio tecnologico di Erzelli).

Scrutando l’orizzonte di questa vasta operazione, però, lo sguardo cade quasi sulla punta dei piedi e si può osservare una prima cosa: in tutto ciò non si coglie, o si fatica molto a coglierlo, un disegno strategico compiuto. La sensazione, cioè, è che si prenda pari pari il disegno di Piano e che si deleghi ad esso l’idea di un pezzo ragguardevole di città futura, senza che la politica sappia o voglia andare oltre, fornendo tutte le indicazioni necessarie per cominciare a “vedere” la Genova che sarà nel Duemila e qualcosa…

Resto vago nella datazione, perché il primo punto è proprio questo: quando la città futuro emetterà il suo primo vagito non è affatto chiaro. Malcontate, ecco le cose che bisogna fare: demolizione dell’ex Nira, realizzazione della nuova Torre Piloti (e già qui la lamentela sulla sua collocazione arrivata dalla presidente di Ucina Carla Demaria non pare così immotivata), realizzazione del nuovo Palasport (o progetto Coni o darsena coperta), recupero immobili dell’area Spimm sotto la Sopraelevata, realizzazione del Blue Print (fra l’altro con costruzione di un canale d’acqua), nuovo portale della Fiera.

Se così stanno le cose, siamo di fronte al più grande cantiere mai aperto a Genova. E allora ecco una prima domanda: si procederà a tappe o si farà un pacchetto unico? La prima opzione promette di tenere in scacco l’intera area per lustri interi, tanto più ben sapendo come vanno queste cose in Italia. La seconda al momento non sembra contemplata, anche se in linea di principio si farebbe preferire. Ma qui arriviamo ad un altro snodo cruciale: chi ci mette i soldi? Se dovranno essere pubblici, campa cavallo con gli attuali chiari di luna. Se si tratterà di investimenti misti, con il coinvolgimento dei privati, il discorso potrebbe procedere. Però, come nel gioco dell’oca, si torna alla casella dei tempi.

Parliamoci chiaro: se Genova bussasse a qualche porta negli Stati Uniti piuttosto che in qualche Paese emergente – leggasi Cina – o presso gli sceicchi (magari basta fare un salto ad Albenga, dai proprietari di Piaggio Aerospace…) presentandosi con un progetto a firma Renzo Piano è improbabile che senta rispondersi solo dei no. Prevedibilmente, anzi, raccoglierebbe un sì. Ma corredato da una inevitabile domanda: quanto ci vuole per fare tutto?
 
Il quesito, considerando proprio l’esperienza del nuovo stabilimento di Villanova, arrivato dopo indicibili tormenti burocratici, certo lascerebbe scettica Mubadala Development Company, società del governo di Abu Dhabi. Del resto proprio in quell’emirato c’è la dimostrazione concreta di come la variabile più considerata dagli investitori internazionali sia quella cronologica più di quella finanziaria: il grattacielo Aldar Headquartes, altrimenti detto la “Grande Conchiglia” per la sua forma, è stato costruito in 12 mesi. Il problema, per la più grande società di sviluppo immobiliare di Abu Dhabi, non era il costo di 14 miliardi di dollari…

Ora, è vero che le condizioni, le regole e lo scenario complessivo rendono distanti anni luce l’Italia e gli Emirati (e il paragone non sempre è sfavorevole al nostro Paese), ma di sicuro l’approccio a ogni discorso riguardante il futuro di una Fiera più strettamente legata al Porto Antico – fino alla fusione delle due società di gestione – non è dei più completi. Ci sarà un presidente in comune, Ariel Dello Strologo, ma qual è di preciso la missione che gli verrà affidata? La logica direbbe che dovrà fare il traghettatore, aspettando l’analisi dei conti aziendali affidata all’amministratore delegato (stavolta designato dalla Regione Liguria).

Roba di pochi mesi, durante i quali gli enti azionisti dovrebbero magari rivedere gli equilibri partecipativi (la Città metropolitana è l’anello debole quanto alla possibilità di assumersi degli impegni finanziari, ma anche gli altri non è che stiano meglio) e soprattutto definire il piano di battaglia strategico: che cosa fare, in quali tempi, con quali soldi. Da cui, fra l’altro, le soluzioni temporanee alternative per attività che non si possono fermare come il Salone Nautico o Euroflora. Tutto il resto non conta. Sarebbero le solite, inutili parole. Ma Fiera e Porto Antico sono ormai a un punto di svolta: o si prova a rilanciarli, o naufragano. Tertium non datur.