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Il film al Festival di Cannes ha vinto il Premio per la migliore sceneggiatura
3 minuti e 13 secondi di lettura
di Dario Vassallo

Un saggio sulle maternità precoci e un'esplorazione di vite sospese all'interno di un rifugio per madri adolescenti di Liegi dove il quotidiano si fa metafora di resilienze precarie. Dopo anni in cui i loro film parevano oscillare tra impegno sociale e allegorie un po’ fredde, i registi belgi Jean-Pierre e Luc Dardenne con Giovani madri, presentato in concorso al Festival di Cannes dove hanno vinto il Premio per la migliore sceneggiatura, mettono in campo una chiarezza d’intenti e una sobrietà che ricordano i loro esordi grazie a una narrazione che evita la retorica con un tono quasi documentaristico e un approccio che cerca la verità delle condizioni reali e non la loro idealizzazione.

La trama

Non una sola storia, ma quella di cinque ragazze, ognuna con un passato segnato da povertà, distacco, dipendenze e famiglie disfunzionali: Jessica deve affrontare l'abbandono da parte della madre che non ha mai conosciuto e il vuoto emotivo derivante da questo trauma familiare; ​Perla, appena uscita di prigione, vede la maternità come opportunità per ricostruire un legame con il suo ragazzo, lottando contro un passato criminale; Julie prossima al matrimonio con un ex tossicodipendente, combatte la paura di ricadere nella dipendenza da stupefacenti; Ariane, segnata dalla sua infanzia burrascosa e instabile, vuole affidare la figlia in adozione per darle una vita serena e Naïma deve superare le minacce e il rifiuto della famiglia per la gravidanza non accettata. Una struttura corale che sottolinea un filo comune: ragazze a malapena pronte all’età adulta che combattono con l’eredità di una maternità spesso assente nelle loro stesse origini.

Una scena del film 'Giovani madri'

Ragazze che si trovano a dover cresce un'altra vita

Ciò che colpisce in Giovani madri è la misura: la macchina da presa non invade, non aggredisce, semplicemente osserva. Non c’è enfasi melodrammatica, non c’è musica a dirigere le emozioni, non ci sono colpi di scena costruiti ad arte. C’è la concretezza delle incertezze di chi ha tredici, quindici, diciotto anni e si trova a dover crescere un’altra vita. Un registro visivo rigoroso e privo di artifici lascia che i gesti e le interazioni quotidiane – un cambio di pannolino, uno sguardo preoccupato, il pianto di un bimbo, una lettera immaginaria a un futuro figlio – rivelino tutta la complessità di un’età troppo presto sospesa tra l’infanzia e l’età adulta.

Racconta vite che spesso non vediamo e non vogliamo conoscere

Certo, la scelta di una storia “collettiva” ha un costo: a volte la narrazione sembra disperdersi nell’accumulo di storie, qualche sottotrama rischia di perdere intensità emotiva e alcune transizioni non colpiscono come potrebbero ma quello dei Dardenne è un cinema che riesce ancora a fare politica — non quella urlata, ma quella che scuote da dentro - perché racconta vite che spesso non vediamo, non ascoltiamo, non vogliamo conoscere. La forza risiede in un’empatia nitida costruita con sguardo partecipe che riesce a evitare sia il facile sentimentalismo sia il didascalismo. La tensione tra legami di sangue e desiderio di autodeterminazione emerge con misura, chiudendo in un finale che suggerisce, più che vittorie o sconfitte, una promessa di riconciliazione e di attesa. E le conclusioni arrivano con gradualità tra abbracci che dissolvono rancori e perdoni che mitigano le perdite.

La maternità come un laboratorio etico

La sua ambizione sta nel non denunciare ma interrogare la maternità come laboratorio etico in un'Europa di crisi demografiche e migrazioni invisibili. Giovani madri rinnova il patto umanista dei Dardenne, un invito a scrutare il marginale non con pietà, ma con un realismo lucido e umano. E in un’epoca in cui la stessa maternità spesso diventa oggetto di retorica, moralismo o giudizio, non pretende di insegnare, non vuole predicare: semplicemente, invita lo spettatore a vedere. Alla fine, la domanda che resta non è “cosa devono fare queste ragazze” ma “cosa faremo noi, quando ascolteremo queste storie”. É in questa silenziosa potenza che sta tutta la bellezza del film.

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